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L’innovazione tecnologica non vale una stella

L’innovazione tecnologica non vale una stella1993, disegno per una fontana a energia solare esposto a Marina Baie des Anges

Valori In molti casi hanno contribuito a rendere la vita più lunga e prospera (nei paesi ricchi). Ma in altri hanno creato le sciagure che flagellano l’umanità e il pianeta

Pubblicato circa 3 anni faEdizione del 10 agosto 2021

Quattro delle nuove cinque stelle del Movimento sono principi etico-politici non utilitari. Di essi non esiste una declinazione negativa. Ma cosa c’entra tra i valori la “innovazione tecnologica”? Questa infatti non è una categoria morale, bensì solo uno strumento con cui si migliora o si peggiora il bene delle persone e del pianeta. Il suo carattere utilitaristico, inoltre, fa sì che dei cinque “valori e principi” questo sia l’unico che può essere comprato e venduto a vantaggio di pochi e a svantaggio di tanti. Per esempio le innovazioni tecnologiche del glifosato o delle piante geneticamente modificate sono state profittevoli per alcuni, ma non necessariamente per tutti.

In realtà uno spettro si aggira per il mondo: è l’”innovismo”. Non c’è discorso di economista o di politico, né articolo di giornale, o titolo di un progetto che non magnifichi i benefici dell’ “innovazione”. Ma innovazione di cosa? Innovazione per chi? Innovazione per andare dove? Certo, chi opera nei laboratori della scienza e della tecnica saprebbe rispondere a queste domande, descrivendo le proprie ricerche.

Discutibili non sono gli operatori di questo o di quel settore tecnologico, ma coloro che celebrano l’innovazione tout court, suggerendo – magari senza volerlo – che ogni cosa nuova sia meglio di ogni cosa vecchia. In tal modo si dimentica che tutte la piaghe autoprodotte dell’umanità sono frutto di certe innovazioni tecnologiche: dalla sedia elettrica, alla bomba atomica, ai pesticidi più nocivi, ai droni bombardieri, ai macchinari che moltiplicano centinaia di volte l’intensità della pesca industriale, della deforestazione e dell’estrazione di carbone, petrolio e gas.

Insomma, molte innovazioni tecnologiche hanno contribuito a rendere la vita più lunga, sana, prospera e sicura (nei paesi ricchi). Ma altre innovazioni tecnologiche hanno contribuito a creare tutte le sciagure autocostruite che flagellano l’umanità e il pianeta. E’ per questo che non ha senso invocare l’innovazione tecnologica senza qualificarla.
“Dare una direzione al progresso” dice il fondatore del Wuppertal Institut Ernst Ulrich von Weizsaecker. Ma chi deve scegliere questa direzione? Sessant’anni fa i poteri pubblici puntarono su un futuro di potenza, costellato di migliaia di centrali atomiche, sorvolate da migliaia di aerei supersonici Concorde e Tupolev. Per finanziare quelle innovazioni si spese una buona parte di quanto sarebbe bastato per avere il 100 per cento di energie rinnovabili.

Oggi però il paradigma che si afferma in Europa per fortuna non è più quello di una tecnica della potenza e dell’eccesso, ma è quello di una tecnica di gentilezza e di temperanza, per esempio le energie rinnovabili (meglio se a produzione diffusa) e le coltivazioni senza pesticidi sintetici. Se Pompidou voleva trasformare Parigi “a misura d’automobile”, oggi Parigi è la capitale mondiale della bici condivisa (Velib) e oggi si parla della “città dei 15 minuti”, a piedi o in bici. I paradigmi della “innovazione della potenza” degli anni ’60, furono centralistici e calati dall’alto. E fu dall’alto che una popolazione spettatrice fu affabulata con i miti gloriosi dell’”era della tecnica”. Gli attuali paradigmi di un vivere e di una tecnica gentili, invece, dilagano dal basso e sono le élite ad esserne affabulate e a rincorrere questo “movimento senza nome” (Paul Hawken).

“Dare una direzione al progresso” oggi vuol dire spostare miliardi di finanziamenti e investimenti di ricerca, sviluppo e costruzione dalle “tecnologie di potenza” (fossili e nucleari) alle “tecnologie di temperanza” (energie rinnovabili, coltivazioni biologiche).
Con la parola “innovazione” si intende quasi sempre qualcosa di materiale, ossia sostituire un manufatto vecchio con uno “innovativo” o, meglio ancora, creare il bisogno di un nuovo manufatto.

Ciò vuol dire dimenticare che per esempio una grande parte dei progressi di longevità e di salute furono dovuti non a nuove medicine ma ad innovazioni sociali come il miglioramento delle condizioni di vita, di alimentazione, di igiene e di lavoro. Vuol dire anche ignorare che l’aumento di produttività dei sistemi industriali fu dovuto non solo a nuovi macchinari ma anche a nuove organizzazioni del lavoro nelle fabbriche (il lavoro infantile e femminile, la catena di montaggio) e a nuove pratiche economiche e finanziarie.

Se quindi si dà peso all’innovazione tecnologica, non meno peso andrebbe dato all’innovazione sociale. Si pensi alla condivisione di auto pubbliche (car sharing) e alle comunità energetiche per l’autoproduzione, il consumo e lo scambio di energie rinnovabili (legge 8/2020). O si pensi all’aumento della mobilità ciclistica e di quella con i mezzi pubblici, ai gruppi d’acquisto di prodotti biologici, al decrescente consumo di prodotti animali, ai mercati e allo scambio di manufatti usati, all’economia circolare che privilegia il riuso e la riparazione.

L’“eco-innovazione sociale e tecnologica” merita di stare in una Carta programmatica, ma nel testo della Carta, non tra le stelle. La stella così liberata la si dedichi a veri valori, per esempio alla parità di genere.

*Marco Morosini lavora dal 1992 con Beppe Grillo. Nel 2020 ha pubblicato il libro “Snaturati – La vera storia dei 5Stelle raccontata da uno dei padri”.

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