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«L’innocenza», un puzzle fra le istantanee della vita

«L’innocenza», un puzzle fra le istantanee della vitaUna scena del film

Cinema Arriva in sala il nuovo film del regista giapponese Kore-Eda, premiato lo scorso anno al Festival di Cannes per la migliore sceneggiatura

Pubblicato circa 2 mesi faEdizione del 23 agosto 2024

In concorso al Festival di Cannes 2023, è ora in sala L’innocenza diretto dal giapponese Kore-Eda Hirokazu (Palma d’oro nel 2018 per Un affare di famiglia), un film atipico rispetto ai suoi squarci di vita, aperti come istantanee all’inafferrabilità delle cose, e segnato da due collaborazioni importanti. Quella con lo sceneggiatore Sakamoto Juji, che cofirma il copione (premiato sulla Croisette) e quella con il grande musicista Ryuichi Sakamoto, di cui L’innocenza (il titolo internazionale era Monster) è l’ultima colonna sonora.

Juji – popolare autore della tv giapponese – porta ai temi ricorrenti di Kore-Eda – l’infanzia, la decostruzione del nucleo famigliare tipico che si ricompone liberamente aldilà dei vincoli di sangue, l’abbandono, il crimine – una struttura drammatica inedita, ad incastro. Il film è costruito infatti come puzzle che inizia con l’immagine di un grosso edificio in fiamme e poi ripercorre la stessa trama da più punti di vista. Il primo è quello di una giovane vedova (Ando Sakura, già in Un affare di famiglia) che osserva suo figlio adolescente Minato (Kurokawa Soya) comportarsi sempre più stranamente. Convinta che il ragazzino sia oggetto delle persecuzioni di un insegnante, intenta una protesta contro la scuola, presieduta da una direttrice taciturna e reduce da un grande lutto. Il punto di vista del maestro (Nagayama Eita), pieno di buone intenzioni ma afflitto da un sorriso inquietante, racconta una storia completamente diversa. E il puzzle trova finalmente il suo senso quando, nella terza parte del film, il racconto raggiunge Minato, e un suo compagno di scuola un po’ folletto, ostracizzato dal resto della classe.
Kore-Eda ha sempre dimostrato grande affinità con i bambini e gli anziani – che la società rende più fragili, ma che nei suoi film spesso contrastano quella fragilità con una dolce, ostinata luccicanza. Qui non fa eccezione e il terzo atto assume la dimensione di una fiaba esilarante e triste.

LA STRUTTURA alla Rashomon è più laboriosa del respiro a cui Kore-Eda ci ha abituati finora, e ogni tanto quell’extra-dose di scrittura si sente, specialmente nella risoluzione finale un po’ troppo matematica. Ma già l’esperienza coreana di Broker, e prima, quella francese di The Truth (con Catherine Deneuve e Juliette Binoche) sembravano indicare, da parte del regista, la ricerca di una direziona diversa. Nelle note di produzione del film, Kore-Eda descrive così l’essersi sentito (da anni) accomunato ai temi espressi dalle sceneggiature di Juji – «era come se inalassimo la stessa aria ma la esalassimo diversamente. Abbiamo coordinato il nostro respiro». Parte di quella coordinazione ha significato anche un lavoro modificato con gli attori che – a differenza dal solito – hanno dovuto seguire la sceneggiatura.

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