Cultura

L’innocenza perduta

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Narrativa Il romanzo «Vittoria» di Annalisa Terranova, da autobiografia di una giovane neofascista a ritratto generazionale

Pubblicato più di 9 anni faEdizione del 16 aprile 2015

Vittoria è un’adolescente, poco più che una bambina in realtà, che si affaccia alla vita nella seconda metà degli anni Settanta, mentre tutto intorno a lei sembra prendere fuoco. La rivolta che cova nel suo corpo che si trasforma pian piano non riesce ad essere simile a quella che riempie le piazze di una stagione tumultuosa della storia italiana: la giovane si sente diversa, lontana dai miti del tempo, idealmente sospesa tra un mondo che non potrà più tornare e alla disperata ricerca di un modo nuovo di vivere quelle stesse idee «maledette». Perché lei, cresciuta in una famiglia di militanti missini per cui la nostalgia mussoliniana è rito quotidiano, è una piccola fascista, sente di appartenere inesorabilmente alla parte sconfitta, proprio come quei sudisti di Via col vento con cui si è identificata fin da piccola e per i quali ha immaginato di scrivere un sequel all’insegna della revanche e del lieto fine.

Con Vittoria (Giubilei Regnani, pp. 230, euro 16), Annalisa Terranova costruisce una narrazione dal taglio indubbiamente autobiografico, ma che ha il respiro di un racconto generazionale. Militante del Fronte della Gioventù, tra le animatrici dell’area femminile dell’Msi e quindi giornalista del Secolo d’Italia, Terranova si segnala da tempo come un’attenta cronista delle evoluzioni della destra nazionale, raccontando sia la trasformazione del mondo giovanile post-missino (Planando sopra boschi di braccia tese, Settimo Sigillo, 1996) che l’inedito punto di vista di genere delle donne di destra (Camicette nere, Mursia, 2007).
Romanzo intimo che traccia una mappa degli affetti e delle incertezze emotive della protagonista, Vittoria dischiude così ai lettori le porte di un universo spesso descritto dalla sociologia politica ma poco battuto dalla narrativa: quello della vita quotidiana dei giovani neofascisti degli anni Settanta – tra le scarse prove in tal senso si possono citare Io non scordo di Gabriele Marconi, Avene selvatiche di Alessandro Preiser, alcuni titoli minori apparsi presso la casa editrice d’area, Settimo Sigillo e, sebbene frutto di uno sguardo «dall’esterno», La legge dell’odio di Alberto Garlini.

Il caso di Vittoria è però per molti aspetti diverso: al terribile fragore della battaglia politica di quegli anni – la storia si conclude con la strage di Acca Larentia e l’uccisione di Aldo Moro -, Terranova sembra preferire i toni interiori, le scoperte e le fratture che non trovano spazio tra gli eventi maggiori dell’epoca, ma che incidono in modo decisivo sulle biografie dei personaggi. Certo, come in gran parte delle ricostruzioni di quell’epoca sviluppate negli ambienti della destra, la violenza, sempre e soltanto quella subita, è onnipresente, ma non è mai evocata per giustificare altra violenza, per segnalare la fine della «politica». Piuttosto, in questo romanzo di formazione, la perdita dell’innocenza che si consuma nel sangue che segna le strade di Roma, quando un suo «camerata» viene ucciso ad Acca Larentia, sembra porre Vittoria di fronte alla necessità ineludibile di trovare una forma nuova per esprimere la propria identità, sempre più schiacciata tra i richiami del passato e la deriva, anche terroristica, del radicalismo nero. Un’identità originale che la destra politica giovanile inizierà a trovare tardi e che dopo l’esperienza di Alleanza Nazionale sarà risucchiata anch’essa, pressoché definitivamente, nel vortice del berlusconismo.

Ma nella stagione vissuta dalla giovane figlia di un rappresentante di commercio, famiglia del ceto medio di un quartiere di palazzoni della zona ovest della capitale, molte scelte sono ancora tutte da compiere. L’Msi che Vittoria scopre ancora bambina attraverso le amicizie famigliari è un ambiente ultraconservatore, dove ogni traccia di modernità e di democratizzazione è vista con sospetto e con timore: si tratti dei decreti delegati a scuola, del divorzio, dell’aborto, delle femministe, ma anche della fine della messa in latino e, perfino, dei Beatles. Gli ospiti dei pranzi dominicali, dove la madre si illustra nelle sue doti culinarie, sono lugubri personaggi come il reduce che ha perso un braccio nella Guerra di Spagna o l’ex ufficiale dei paracadutisti che inorridisce di fronte al fatto che un «figlio di nn» abbia potuto raccontare a San Remo la sua storia: 4 marzo 1943 di Lucio Dalla. Allo stesso modo, nelle «scuole di partito» si parla ancora soltanto del corporativismo e «dell’eredità politica di Benito Mussolini».

In questo contesto, al pari di tanti suoi coetanei dello stesso mondo, Vittoria scopre in Julius Evola e nella sua «concezione guerriera dell’esistenza» una sorta di paradossale via d’uscita, rappresentata dall’idea di poter vivere rinchiusi in una «torre d’avorio», lontano dal frastuono perturbante della modernità. In attesa del fatto che «i fascisti, o almeno lei così aveva capito, non dovevano fare la rivoluzione come i compagni, ma la controrivoluzione, quella che ti riporta indietro fino alla tradizione, ma senza essere conservatori, perché diceva Evola, oggi da conservare non ci sta quasi nulla».

Lo spazio di manovra è ristrettissimo, quasi inesistente; da un lato si tratta di perpetrare «la voce dei vinti» appresa in famiglia, continuando a maledire la scarsa tempra degli italiani che non seguirono fino in fondo il Duce, dall’altro si vive come «esuli in patria», secondo la formula coniata da Marco Tarchi che in quegli anni fu tra i più noti esponenti del Fronte della Gioventù, vivendo ogni giorno in un mondo di cui si rifiuta tutto e in realtà anche gli stessi presupposti, frutto della vittoria degli antifascisti nel 1945. Il risultato è la lucida impasse in cui si muoverà più di una generazione di giovani di destra, incapaci di fare una rivoluzione «senza rivoluzione», mentre, come accadeva a Vittoria, nella biblioteca paterna trovavano «solo libri su un mondo finito nel ’45» ed erano consapevoli «di quanto fosse difficile contrapporre al «sol dell’avvenire», il mito crepuscolare degli ultimi fascisti in piedi tra le rovine».

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