La Romània come spazio linguistico, culturale e letterario non è sempre esistita: si è formata in Europa come effetto indiretto della fine dell’impero romano e si è espansa modernamente in altri continenti in seguito a fenomeni coloniali e migratori oggi complessivamente esauriti, e ormai sostituiti da nuove e diverse migrazioni e da nuove forme d’imperialismo e di egemonia. Le lingue romanze, sulla cui origine e sulla cui formazione siamo informati meglio che su molte altre lingue viventi, tanto che ne conosciamo bene anche l’antecedente comune, sono interessate – proprio in quanto lingue vive – da un mutamento incessante che nel tempo potrebbe portare a trasformazioni così radicali da essere considerate stravolgenti. Esse potrebbero anche estinguersi, come di fatto è già avvenuto e avviene continuamente alle molte singole varietà (dialetti isolati, lingue minoritarie soggette a forte pressione da parte di lingue dominanti) delle quali è già stata osservata più o meno distintamente la fine.

PROPRIO NEL CENTRO geografico della Romània si situa il caso famoso del veglioto, varietà romanza parlata fino alla fine dell’Ottocento sull’isola di Veglia, nel mare Adriatico dirimpetto alle coste della Dalmazia, lingua per la quale secondo una tradizione che pure è controversa si è individuato persino il presunto ultimo parlante, morto nel 1898.
Ciò che è accaduto al veglioto – e prima ancora, in Europa e in Africa, alle molte varietà della Romània sommersa – potrebbe accadere a qualsiasi lingua, anche se evidentemente è difficile immaginare la possibilità di una semplice e puntuale estinzione per grandi lingue con decine o centinaia di milioni di parlanti distribuiti su più continenti. Sebbene non sia dunque l’estinzione linguistica a minacciare nel suo complesso la compagine delle lingue romanze, a più riprese – e guardando soprattutto alla vecchia Europa – vari linguisti negli ultimi due secoli hanno azzardato ipotesi più o meno fantasiose sulla loro possibile evoluzione e progressiva dissoluzione.
Pochi anni dopo l’Unità d’Italia, nel 1864, Graziadio Isaia Ascoli immaginava come verosimile entro qualche secolo uno scenario in cui le grandi lingue di cultura europee si sarebbero mosse verso una complessiva assimilazione e integrazione. In una pagina visionaria, egli ipotizzava una prima fase in cui le lingue slave, quelle germaniche e quelle romanze si sarebbero fuse tra loro dando luogo ciascuna a «un solo idioma letterario», e una seconda fase (in seguito a «una grande vicenda storica, un cozzo, ad esempio, con l’Asia risurta») in cui le tre grandi lingue così formate si sarebbero addirittura unificate .

IL DESTINO delle lingue romanze – nonché delle tradizioni discorsive, letterarie e non letterarie, che esse esprimono – è dunque territorio aperto a ipotesi e previsioni più o meno fantasiose che si rinnovano da un secolo e mezzo, e che di fatto paiono sistematicamente smentite, tanto da sconsigliare simili esercizi predittivi. Altra cosa – ma l’operazione può rivelarsi non meno insidiosa – è il tentativo di previsione dei possibili sviluppi futuri della romanistica.
Ma al crocevia di discipline collegate e diversamente orientate – quali le diverse filologie nazionali, gli studi di linguistica e quelli di letteratura –, la filologia romanza negli ultimi tempi ha dato piena espressione alla propria tendenza a considerare il presente come un tempo di bilanci e insieme un terreno di dibattito. Anziché di crisi, proprio questi atteggiamenti sembrano segnali di una grande vitalità, che è tutto il contrario della statica inerzia passatista o dell’incapacità di rinnovarsi di cui talora i filologi si sentono (o si temono) accusati. Un osservatore acuto come Edward W. Said – anglista di formazione e di professione, esperto di Joseph Conrad – si è interrogato su cause e rimedi delle difficoltà in cui versano le humanities, in particolare quelle americane, e ha invocato con convinzione un ritorno alla filologia indicando i modelli di riferimento in due romanisti europei del Novecento, Leo Spitzer e Erich Auerbach.

UN SIMILE INVITO è stato esplicitamente raccolto, qualche anno più tardi, da un altro studioso americano, Jerome McGann, nella sua risposta alla deriva più o meno consapevolmente antifilologica presa dalla cultura americana nell’età del trionfo delle Digital Humanities e dell’assurdo (perché culturalmente malformato) modello della cosiddetta STEM education. Alla tradizione della romanistica europea, dunque, guardano oggi settori e contesti culturali anche distinti dall’alveo linguistico tradizionale degli studi romanzi, il che favorisce incroci e dialoghi promettenti. È del resto proprio nei punti d’incontro e nelle aree di intersezione tra grandi bacini culturali che la romanistica fin dalle sue origini trova i suoi campi di applicazione più fecondi.