Traum e Trauma sono due termini che, nella lingua tedesca, la lingua del fondatore della psicoanalisi, sono apparentati da una curiosa assonanza, quasi da un’omofonia: è Vittorio Lingiardi a mettere in rilievo, nel suo ultimo libro, L’ombelico del sogno Un viaggio onirico (Einaudi, pp. 140, € 12,00), questa singolare (e forse non casuale) somiglianza lessicale e fonetica tra due concetti – sogno e trauma – in effetti intimamente connessi l’uno all’altro: «c’è una relazione complessa tra sogno (in tedesco, lingua della psicoanalisi, Traum) e trauma (in tedesco Trauma): da una parte la possibile riparazione, dall’altra l’inelaborabile ripetizione». Così Lingiardi, al termine della sua importante ricognizione teorico-clinica sul sogno, facendo intendere al lettore l’eco delle straordinarie osservazioni di Sigmund Freud su questo strano intreccio: fu proprio, infatti, ascoltando i sogni traumatici dei sopravvissuti alla prima guerra mondiale – il cui contenuto ripetitivo e doloroso sembrava mettere in discussione la teoria secondo la quale il sogno sarebbe stato l’appagamento di desideri interdetti – che Freud si ritrovò spinto a teorizzare l’esistenza di un ‘al di là del principio di piacere’, di un territorio psichico, fino a quel momento inesplorato, nel quale l’esperienza di soddisfazione si legava misteriosamente a quella di insoddisfazione. Lingiardi riassume così, in un passaggio tanto denso quanto penetrante, una delle ambivalenze che qualificano il sogno: da un lato il sogno ripara, dall’altro, ripete. Per un verso, il sogno simbolizza, integra, elabora, condensa, metaforizza, narra, mette in scena contenuti psichici non ancora ‘pensati’ – come l’autore specifica facendo riferimento all’insegnamento di Wilfred Bion – per l’altro, è nightmare, incubo, (dal latino incubus, ‘che sta sopra’), presentificazione di materiali penosi, conflittuali, angoscianti. E’ realizzazione delle possibilità di appagamento che la coscienza rifiuta, e anche terreno di incursione di desideri che destabilizzano l’io, mettendone in bilico la presunta padronanza: i tormentati sogni a contenuto sessuale di Agostino ne sono la rappresentazione emblematica. Su un versante, il sogno mostra le sue potenzialità creative, sull’altro, rivela il suo carattere distruttivo, qualità che la mitologia greca – come Lingiardi acutamente osserva – aveva ben identificato, facendo di Hypnos – il figlio della Notte – il gemello di Thanatos. «Dormire, sognare, morire»: Amleto ha reso immortale questa triade, aggiunge l’autore.

Ed è sullo sfondo di tale contrapposizione radicale, che le diverse aporie e i diversi interrogativi che da esse derivano orientano le riflessioni e lo sviluppo del libro: quale rapporto c’è tra il sogno e il sognare, tra l’attività onirica e il suo prodotto? Tra il sonno e il sogno, tra il sonno e la veglia, tra il sogno e l’inconscio? E chi è l’autore del sogno? Qual è la sua responsabilità in ciò che il sogno mette in scena? A cosa serve sognare?

In un percorso speculativo che prende le mosse da fondamentali riferimenti alla classicità greca e latina, Lingiardi conduce il lettore in un’esplorazione delle principali teorie psicoanalitiche sul sogno, fino ad arrivare alle più recenti ricerche delle neuroscienze. Una polifonia di voci tra le quali, progressivamente, si delinea e si precisa quella dell’autore: il sogno – afferma Lingiardi – è una rappresentazione dell’assetto psichico del sognatore e, di conseguenza, rivelatore di strutture psicopatologiche. Per questo motivo, «spesso è utile interpretare i sogni nella loro sequenzialità, ripercorrendo il cammino dell’individuazione, il processo attraverso il quale si attua la strutturazione del Sé».

Il sogno, allora, funziona come una sorta di laboratorio, un’officina di cifratura che metabolizza emozioni e vissuti affettivi trasformandoli in pensiero: «non un modo ingegnoso di proteggere il sonno dando soddisfazione segreta e indolore ai desideri infantili, come direbbe Freud; né una rivelazione mitopoietica scaturita da un inconscio taumaturgico, come direbbe Jung».

Aderendo all’auspicio di Freud, secondo cui – un giorno – i suoi allievi avrebbero dovuto impegnarsi nello studio dei sogni in ambito psicopatologico, Lingiardi presenta una classificazione di materiale onirico ritenuto peculiare di ognuna delle tre principali strutture psichiche: nevrosi, psicosi o borderline. E a sostegno delle proprie ipotesi, in conclusione del secondo capitolo, espone la storia clinica di Rossella, una vicenda paradigmatica che illustra «come può cambiare, nel corso di una terapia, il paesaggio onirico».

Ne ricava  l’idea che l’imprescindibile lavoro di analisi dei sogni è in grado di incidere profondamente sulla struttura della personalità dell’analista, riconfigurandone l’assetto – come hanno osservato gli studiosi del (Fred Group) – anche dal punto di vista neurofisiologico. «Confrontando i sogni d’inizio analisi con quelli fatti dopo tre anni, hanno rilevato che, in modo coerente con l’andamento della terapia, alcune variabili oniriche “miglioravano”: tra queste, le atmosfere e i modelli relazionali, il tipo di azioni compiute, l’ampiezza dei vissuti emotivi».

Lungi dal limitarsi a rappresentare una finestra che si affaccia su quel che il soggetto in analisi non sa di sapere, il sogno è dunque anche – e soprattutto – un ‘oggetto di lavoro’, un materiale prezioso su cui concentrare l’azione analitica: non solo prodotto dell’inconscio, ma anche produttore di inconscio. Ed è questo uno dei più rilevanti pregi del libro di Lingiardi: aver riportato al centro dell’attenzione dell’arcipelago psicoanalitico l’esperienza e il ruolo fondamentale che il sogno svolge nell’indicare e segnalare all’analista l’esistenza di quella che Freud chiamava l’Altra Scena, mettendo a fuoco il potere trasformativo che riveste l’analisi del materiale onirico nel processo terapeutico.