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Rimediamo Il virus sta mettendo a nudo i vecchi peccati della comunicazione, esacerbandoli e svelandone così le aporie

Pubblicato più di 3 anni faEdizione del 17 marzo 2021

Vaccino sì, vaccino no: canterebbero Elio e le Storie Tese. Purtroppo, l’informazione italiana – con le debite, ma poche eccezioni- sembra piegata, china davanti al potere reale che cerca di destreggiarsi dentro la trama del Covid-19. Anzi. Proprio mentre emergono tutte le crepe nella gestione della vicenda, a partire dalla ritirata europea di fronte alle case farmaceutiche e ai loro brevetti, sarebbe indispensabile avere almeno la garanzia di sapere e di approfondire. Se facciamo eccezione per programmi coraggiosi come Report o Presa diretta, e non molto di più, siamo sommersi da un’ondata di news spesso subalterna alle ondivaghe e contraddittorie scelte dei decisori.

Ottimisti e pessimisti ad ore alterne, in particolare i telegiornali si stanno segnalando per dosi di insopportabile piaggeria. Simile tendenza, sempre immanente nel sistema mediale, con l’avvento della presidenza del consiglio di Mario Draghi ha raggiunto la sua epifania. I dati forniti dall’osservatorio tg Eurispes-CoRiS Sapienza sulle edizioni dall’8 al 12 marzo scorsi ci dicono che la cronaca del contagio ha conquistato ben 32 aperture. Eppure, eravamo a ridosso dell’importante viaggio in Iraq del Papa di Roma e delle discussioni sul nuovo segretario del partito democratico. L’annuncio del ritiro di un lotto del vaccino AstraZeneca, ovviamente, ha cannibalizzato i titoli di Tg3, Tg4, Tg5, Tg La7, per diventare il leitmotiv delle ultime ore.

Alla prevedibile quantità del minutaggio non corrisponde un’adeguata qualità. L’omologazione cresce sovrana e il doveroso atteggiamento di un avvertito watchdog journalism pare svanire. I numerosi invitati dei talk parlano in tanti casi senza un vero contraddittorio, rilasciando di volta in volta dichiarazioni rassicuranti o di cupo fatalismo. E, proprio a proposito della storia di AstraZeneca, non si può che concordare con l’analisi critica svolta da Franco Bechis, direttore di un quotidiano pur assai lontano politicamente come Il Tempo. La richiesta di precisione e di trasparenza nella divulgazione delle notizie è giusta e condivisibile.

Un caso di scuola amaro, eccentrico persino nell’ambiente buonista e accomodante di Fabio Fazio, è quello della puntata di domenica 14 marzo di Che tempo che fa. Le interviste-chiacchierate con il generale-commissario straordinario Figliuolo e il virologo Burioni (ospite abituale) sembravano delle elegie, dei peana con il sottotesto del supereroe Draghi. Già. L’informazione è a sovranità limitata. Ci sono fili invisibili e taciturni che non si possono toccare. Basti pensare alla differenza abnorme con la critica costante e talvolta del tutto strumentale rispetto al governo Conte bis e alle sue azioni. In verità, al di là della propaganda da regime, che c’è di nuovo davvero nella gestione della pandemia o nel piano vaccinale?

Insomma, il virus sta mettendo a nudo i vecchi peccati della comunicazione, esacerbandoli e svelandone così le aporie. Purtroppo, però, non se ne discute. Come se un passa parola capillare avesse caldamente invitato ad abbassare lo sguardo e a limitare ogni velleità critica. Eppure, l’urgenza di rendere consapevoli le persone dovrebbe prevalere sulla comoda tentazione di trasformare cittadine e cittadini in meri sudditi. Manipolabili a piacere.

Perché le istituzioni preposte, dalla commissione parlamentare di vigilanza all’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni non pensano ad uno specifico indirizzo sul racconto della pandemia, per riaffermare i punti essenziali della correttezza e dell’equilibrio nel fornire le informazioni? Il pluralismo non è solo la sua versione politica. Il tema assume, poi, un valore cruciale, che non attiene semplicemente alla correttezza deontologica.

In verità, il corpo ancora prevalente dell’universo dei media avrebbe l’obbligo di fare fronte comune contro la dilagante patologia delle fake news, che sta invadendo le architetture a maglie larghissime dei social. La dialettica tra vero e falso diventa un obbligo civile, necessario per tutelare democrazia e civiltà. E non è neppure sufficiente ancorarsi al pressapochismo o al verosimile. La verità, per una volta, è assolutamente rivoluzionaria. Anche senza rivoluzione.

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