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L’inflazione gela le previsioni

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Nuova Finanza pubblica La rubrica a cura di Nuova Finanza pubblica

Pubblicato quasi 3 anni faEdizione del 12 febbraio 2022

L’inverno dello scontento torna a raffreddare eurolandia. Nelle sue periodiche “previsioni d’inverno” (European Economic Forecast Winter 2022) diramate in settimana, la Commissione si mostra meno ottimista rispetto a qualche mese fa nelle aspettative di crescita del continente. Ad autunno scorso si preventivava un pil +4,3 per il 2022 e +2,4 per il 2022, adesso le stime si abbassano, rispettivamente, a + 4 e + 2,7 per l’eurozona. Nelle motivazioni addotte compaiono l’effetto della ondata omicron, le tensioni geopolitiche, e l’inflazione. Quest’ultimo dato sottende una lotta all’arma bianca in merito alle politiche monetarie della BCE.

Dalla primavera del 2020 l’istituto diretto da Lagarde – dopo una esternazione abbastanza infelice della governatrice che portò ad un ribasso borsistico rilevante – ha inaugurato un programma che conferma ed espande l’orientamento della sua politica monetaria inaugurato nel 2010 dall’allora governatore Trichet (dopo averla negata fino a pochi giorni prima!).

Un orientamento espansivo di acquisto di attività finanziarie sui mercati, che aveva già avuto un incremento importante sotto la presidenza di Mario Draghi. L’attuale programma la porta al massimo grado, con l’effetto di abbassare molto i tassi di interesse sull’indebitamento degli Stati europei.

In altri termini, i governi possono ottenere soldi in prestito a buon prezzo. Questo contrasta con la vulgata secondo la quale la difficoltà di rifornirsi sarebbe conseguenza di fattori meramente interni gli Stati: la affidabilità di bilancio, le riforme, e simili. Fino alla sorta di puritanesimo mercatista che fa discendere da presunta immoralità pubblic (corruzione, malversazione, malgoverno) i comportamenti degli investitori.

Se i rendimenti dei titoli pubblici del 2020-21 sono rimasti bassi (avvantaggiando quindi gli Stati che li dovranno pagare) qualcuno non è rimasto affatto soddisfatto della situazione.
Parte considerevole della nomenclatura tedesca ha sempre visto di mal occhio tali orientamenti, perché ciò fornirebbe un alibi per schivare il rigore di bilancio.

Il nuovo esecutivo tedesco non sembra immune da tali spinte. L’erede di Schauble, il neoministro delle Finanze Lindner già a fine 2021 pareva alternarsi al governatore uscente della Bundesbank nel richiamarsi al rigore: «Bisogna considerare il pericolo che che la Bce possa trovarsi dominata dalle esigenze fiscali degli Stati (nov 2021)«.
In settimana il nuovo governatore J. Nagel ha rincarato la dose: “[se la situazione non migliora] a marzo mi schiererò a favore della normalizzazione della politica monetaria (Sole-24 ore, 10 febbraio)».

Nagel allude all’inflazione, che infatti nelle Previsioni della Commissione viene ampiamente citata come correlata agli accresciuti costi delle materie prime, con i risvolti di aumento delle bollette energetiche che hanno spinto alle proteste anche i comuni, costituendo una bella grana per il governo Draghi.

Anche la comunicazione della Lagarde, pur cercando di essere abbastanza rassicurante – ma più nel senso di ambiguità omissiva – è sembrata confermare i timori di un raffreddamento delle politiche monetarie, ed i mercati finanziari si sono adeguati mettendo in piedi una risposta anticipatrice di tale possibilità: chiedere più soldi ai paesi della periferia europea per i titoli, generando una oscillazione – come ha notato l’analista finanziario Fabrizio Russo – del movimento dei rendimenti dei titoli tedeschi a due anni con una magnitudo da terremoto.

Se torneremo ad un maggior rigore nei prossimi mesi, tutto il corteo di problematiche, terminologie e expertise comparso nei dieci anni di fibrillazione della crisi dei debiti – spread, rischio ridenominazione dell’euro, bonds- attualmente sedato dalla pax eurocratica draghiana è destinato a rimpiazzare il pervasivo dibattito su tamponi, TI e vaccini con drammatica rapidità.

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