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L’infanzia dell’alta sicurezza

L’infanzia dell’alta sicurezzabackstage – foto Amalia Violi

Teatri in carcere Mimmo Sorrentino per il progetto "Educarsi alla libertà" nel suo spettacolo fa raccontare tragiche storie di bambine alle detenute di alta sicurezza

Pubblicato più di 6 anni faEdizione del 26 maggio 2018
Luciano Del Sette VIGEVANO (PV)

L’applauso fatica ad arrivare. Nel piccolo teatro, quando le luci si accendono, è un suono timido, scandito da poche mani. Poi cresce, diventa forte, corale, convinto. Se l’applauso fosse rivolto a uno spettacolo qualsiasi in un teatro qualsiasi, potrebbe far pensare a un pubblico scarsamente entusiasta, trascinato dalla claque. Non è così. Almeno qui, nel teatro del carcere di Vigevano, al termine dei quarantasei minuti di L’infanzia dell’alta sicurezza, testi e regia di Mimmo Sorrentino; sul palco Rosaria, Micaela, Maria, Marina…
Detenute per reati associativi. Quelli che hanno a che fare con mafia, ’ndrangheta, camorra. L’applauso non poteva arrivare subito, perché prima occorreva tornare alla realtà, uscendo dalla stretta delle emozioni, dello smarrimento; del giusto disagio che avvolge lo spettatore ascoltando storie tragiche di bambine, raccontate da chi, oggi donna, sconta la sua pena in regime di Alta Sicurezza. Nessuna di loro, sul palco, racconta, però, la propria storia. Ciascuna mette in scena la storia di un’altra: il sogno di un Natale insieme al padre visto poche volte in parlatorio o nelle ore troppo brevi di un permesso, l’assenza perenne di una madre contrabbandiera di sigarette per le strade di Napoli, gli anni dei giochi consumati in mezzo ai riti e all’arroganza del crimine, il consenso del fratello in galera per venir ‘autorizzata’ a vivere la propria omosessualità. Non essere interpreti di sé stesse rientra fra le tante, inusuali scelte fatte da Mimmo Sorrentino all’interno del progetto «Educarsi alla libertà», nato cinque anni orsono su sollecitazione del direttore del carcere, Davide Pisapia: «In precedenza avevo realizzato un’esperienza analoga con i detenuti per reati comuni. Nel 2013, Pisapia mi chiese se fossi disposto a riproporla con le donne del regime di Alta Sicurezza. Accettai, decidendo che il passo iniziale da compiere lungo il percorso sarebbe partito dalla loro infanzia. Quando a tre anni vieni portata in parlatorio a visitare genitori e congiunti, quando ti abitui fin da piccola a vedere le armi circolare per casa, delinquere assume i caratteri di un fattore ereditario, di una condizione di normalità. Spetta al teatro aiutare a scoprire che invece, tutto questo normale non lo è». Un uomo libero entra all’improvviso nel tuo mondo. Ma chi lo conosce, che vuole da me? Mimmo ricorda bene cosa gli risposero Rosaria, Micaela Maria, Marina dopo averlo ascoltato, ‘Io, i fatti miei non li racconto’.
I PROVINI
Lui sceglie la risposta come unica battuta da recitare durante i provini iniziali, trasformandola in una sorta di mantra capace di rompere il ghiaccio. È un percorso difficile, ma via via la confidenza cresce. I testi di L’infanzia dell’alta sicurezza devono poggiare sulle parole, la memoria, le vite delle donne che ne diverranno attrici. E le parole, la memoria, le vite prendono ad affiorare, insieme a qualche consapevolezza: «Una donna, del marito condannato a vari ergastoli mi disse che era un uomo di carattere. Un’altra che, nella vita privata, il suo compagno era molto amorevole con lei e con i figli. Obbiettai che se essere di carattere significava uccidere, io uomo di carattere preferivo non esserlo; che un marito e padre amorevole in casa e spietato fuori, forse del tutto amorevole non era. Alla fine lo ammisero, ‘non hai tutti i torti’. Un’altra donna ancora confessò di aver sempre saputo che prima o poi sarebbe stata arrestata, e che una volta ‘dentro’ si era finalmente rilassata, si era sentita protetta».
IN TOURNÉE
Da Vigevano, lo spettacolo, grazie a un’importante decisione della magistratura di cui diremo poco oltre, ha preso a girare nei teatri italiani. Sorrentino rammenta la felicità di una detenuta al ritorno da una data torinese. Il personale penitenziario di scorta aveva infatti deciso di accompagnare il gruppo in un breve giro turistico «Al di là di Torino, scoprii dai suoi discorsi che non conosceva nulla neppure di Napoli, la sua città. La famiglia possedeva auto e moto di lusso, era gente ricca, di potere. Eppure, lei non aveva mai messo piede fuori casa». La funzione riabilitativa di «Educarsi alla libertà» ha portato la magistratura a includere il progetto nei casi in cui rientra il Permesso di necessità, normalmente concesso per gravi problemi di salute o in caso di eventi luttuosi. Facile comprendere quanto sia stata e sarà fondamentale in futuro tale decisione applicata a un’iniziativa di carattere culturale e sociale. Altrettanto facile, seguendo i monologhi che compongono L’infanzia dell’alta sicurezza, comprendere quanto ne siano state coinvolte le protagoniste, alcune dotate di notevoli capacità recitative. Forte e sprezzante, fragile e amara, sa essere la ‘principessina’ figlia di un camorrista, incarnata da Micaela. Dolente, malinconica, sconfitta, appare Rosaria nella cronaca sognata onirica di un albero di Natale ‘grande più di questa stanza’; di un padre messo a fuoco soltanto nei dettagli delle mani, delle gambe sulle quali immaginare di potersi sedere. A una madre e a un padre è rivolta la lettera di Marina, aperta da un interrogativo colmo di strazio ‘Madre, perché non hai visto mia sorella farmi bere lo smalto? Voleva farmelo bere perché tu ci vedessi.
BIANCANEVE
Dov’eri, padre mio, quando mia sorella mi ha strappato l’abito di Biancaneve che mi stava benissimo? Me l’ha strappato perché tu non c’eri’. Cinquantadue repliche nella casa di reclusione dal 2015; tra il 2016 e il 2018, rappresentazioni all’Università Statale e alla Scuola di arte drammatica Paolo Grassi di Milano, al Teatro dell’Argine a Bologna, al Cagnoni di Vigevano, al Palladium di Roma, allo Stabile di Torino. Un pubblico che dalla ristretta cerchia dei parenti è andato ampliandosi e ha raggiunto finora le seimila presenze. Un pubblico, nelle parole di Sorrentino: «Stupito e commosso di fronte a storie crudeli e al medesimo tempo espressioni di una grandissima apertura di amore». Amore che gli occhi e le voci di Micaela, Rosaria, Maria, Marina, stanno imparando a non nascondere più.

TERRA E ACQUA UNO SPETTACOLO PER RIUSCIRE A CAMBIARE

Se oggi Davide Pisapia, direttore del carcere di Vigevano, è uno dei più convinti sostenitori del progetto di Mimmo Sorrentino, sei anni fa l’idea suscitò in lui qualche perplessità. Lo racconta ricordando il primo incontro con il regista, nel 2012 «Sorrentino mi fu presentato da un comune amico, un formatore che da tempo lavorava con noi. Parlammo del suo teatro partecipato, e lui mi chiese di poterlo sperimentare all’interno della struttura. Risposi positivamente, perché mi interessava che le attività qui in istituto, soprattutto quelle provenienti dal territorio, si moltiplicassero. Però non capivo bene dove saremmo andati a parare». In una ventina di giorni, Mimmo mette a punto un testo, Terra e acqua, destinato ai detenuti comuni del reparto maschile, e chiede di rappresentarlo nel Cortile passeggi, con la partecipazione di pubblico esterno «Rimasi un po’spiazzato. Nonostante a livello regionale e nazionale alcune iniziative ‘di rottura’ ci fossero già state, per la storia del carcere di Vigevano l’idea suonava strana, quasi una bestemmia. Tuttavia, grazie anche alle discussioni con i miei collaboratori, diedi l’assenso». Terra e acqua va in scena. Tre repliche, accesso massimo consentito una quarantina di spettatori esterni ogni volta. Un successo che Pisapia non identifica tanto nell’interesse e nella risonanza mediatica suscitati dallo spettacolo, ma in un aspetto assai più rilevante «Quello che notammo subito a livello rieducativo, fu che quel tipo di teatro, quella forma di recitazione, costringeva chi aveva commesso un reato a fare i conti con la propria coscienza, Non sto parlando di pentimento, di collaborazione. Ma di una seria riflessione su sé stessi. Decidemmo allora di continuare il progetto. Mimmo trovò il nome, Educarsi alla libertà, divenuto un concetto profondo; una forma di sinergia con chi di libertà vive, ma non si sa quanto alla libertà sia stato davvero educato; un fattore che accomuna la popolazione cittadina alla popolazione detenuta». Il trasferimento del progetto sulla sezione femminile dell’Alta Sicurezza, sottolinea Pisapia, ha dovuto misurarsi con donne appartenenti alla criminalità organizzata, e dunque trovare una calibratura mantenendo le proprie prerogative e le proprie finalità «Qui l’impatto è stato ancora più potente. Non scaviamo, non mettiamo in discussione l’aspetto giudiziario. Seminiamo. E qualcosa è stato raccolto. Basti pensare che alcune donne sono state declassificate, vale a dire ritenute non più pericolose; altre hanno usufruito di pene alternative». Veniamo al Permesso di necessità con scorta e alla nuova valenza che ha assunto rispetto a interventi come Educarsi alla libertà. «Pioniera in tema è stata la magistratura di sorveglianza di Milano, che negli ultimi anni ha avvertito l’esigenza di avvicinare il contesto sociale ai carcerati. Il Permesso di necessità, ad esempio, è stato utilizzato a Milano per spalare le strade dopo nevicate abbondanti, con l’ausilio dei detenuti. Così facendo, la magistratura ha iniziato ad affermare che la gravità, base della concessione del Permesso, non doveva riguardare soltanto un evento luttuoso, e quindi negativo, ma eventi unici e rilevanti ai fini di un percorso educativo del condannato. Da parte nostra, nel caso specifico, abbiamo convinto i magistrati di Pavia ad adottare lo stesso strumento; le corti di appello delle detenute non ancora definitive hanno risposto in modo positivo». Cosa ha restituito a lei, ai suoi collaboratori, al personale di polizia penitenziaria, Educarsi alla libertà? «La collocazione dell’Istituto, lontano da Milano e da Pavia, in campagna, rappresenta un serio ostacolo nell’avvicinare il territorio e il contesto sociale. Questa esperienza è servita a darci visibilità. Ma non esiste soltanto l’aspetto professionale, non si può rimanere sempre distaccati, nei rapporti quotidiani con chi sta scontando una pena. Assistendo agli spettacoli, ci siamo convinti che anche i colpevoli di crimini efferati conservano quel briciolo di umanità per poter cambiare. Magari il cambiamento riguarderà i figli, i nipoti. È un processo cui la cultura, nell’amministrazione penitenziaria, può dare un grande contributo».

SEZIONE FEMMINILE, STORIE DIETRO LE SBARRE

Terzo pezzo

di L. D. S.

Da fine 2013, quando ha iniziato a prendere forma all’interno della sezione femminile di Alta sicurezza, Educarsi alla libertà ha prodotto tre spettacoli. Del primo, L’infanzia dell’alta sicurezza, si è detto. Gli altri due, ugualmente scritti e diretti da Mimmo Sorrentino, si intitolano Benedetta e Sangue. Il primo, con Federica Ciminiello e Margherita Cau, mette in scena la figura di una donna che, a dispetto dei crimini subiti e provocati, è convinta di ottenere solo del bene dalla vita, ritenendosi perciò una figura sacra. Benedetta si sdoppia per non essere travolta dal reale, dall’incubo della sua condizione. E nello sdoppiarsi si insulta, si detesta, si teme. Ma poiché sdoppiarsi davanti al reale, all’incubo, è una reazione propria del genere umano, la protagonista ‘sdoppia’ anche noi. Facendoci vivere la tensione della separazione, la tendenza naturale a ricomporci. Benedetta svela, raccontandola dall’interno, la condizione femminile nei contesti di criminalità organizzata, e apre le porte della poesia dove la poesia è stata messa all’indice. A interpretare Sangue sono le sei detenute di L’infanzia dell’alta sicurezza insieme a sei agenti di polizia penitenziaria. Vi si racconta dei delitti di cui le donne sono state testimoni, e di come questo pesantissimo vissuto si sia in loro incistato. Le sei agenti di polizia le seguono sul palco, analogamente a quanto fanno scortandole negli spostamenti fuori dal carcere; le illuminano con le torce usate per rischiarare le celle di notte e verificare che non siano evase o si siano fatte del male. Proprio tale convivenza, seppure in un breve arco temporale e dentro una dimensione fittizia, accresce il significato e sottolinea le finalità narrative di Sangue. Come nel caso di L’infanzia, i testi nascono dalle esperienze dirette delle detenute, e allo stesso modo ciascuna detenuta è attrice di una storia altrui. Nel 2017 e nei primi mesi del 2018, i due spettacoli sono stati rappresentati in varie sedi, quali le università Statale e Bicocca di Milano, i teatri Argine di Bologna e Palladium di Roma. Lo scorso aprile, il teatro milanese Elfo Puccini ha ospitato la trilogia. Sempre sulla trilogia, il regista Bruno Olivero sta realizzando un film – documentario. Il 30 maggio prossimo, Benedetta avrà la sua prima nazionale al Sybaris di Castrovillari, nell’ambito di Primavera dei teatri. Info: teatroincontrovigevano.com

Bio Mimmo Sorrentino

Napoletano di nascita, figlio adottivo di Vigevano, Mimmo Sorrentino è drammaturgo, regista, docente di Teatro partecipato presso la scuola Paolo Grassi di Milano. Sul suo metodo di lavoro ha pubblicato il saggio Teatro partecipato per la pisana Titivillus Edizioni, adottato in varie università italiane. Lungo il percorso di ricerca, Sorrentino ha coinvolto (elenco in ordine alfabetico da lui stilato) abitanti delle periferie del nord Italia, alcolisti, alpini, anziani, attori, commercianti ambulanti, detenuti, disabili, docenti, extracomunitari, giudici, infermieri, magistrati, malati di Alzheimer, malati terminali, medici, pendolari, persone uscite dal coma, Rom, studenti, tossicodipendenti in recupero, vigili del fuoco. Sul fenomeno dell’Hikikomori, la progressiva autoreclusione dei ragazzi, ha scritto lo spettacolo Lo spazio vuoto del cuore. Ha ricevuto il Premio Franco Enriquez 2009, dedicato al regista teatrale e d’opera, e il Premio ANCT (Associazione Nazionale dei Critici Teatrali) – Teatri delle diversità 2014. Fratello Clandestino è stato segnalato al Premio Teresa Pomodoro, un teatro per l’inclusione; Ave Maria per una gattamorta al Premio Ubu e al Premio Ater Riccione (lds)

Opinioni su L’infanzia dell’alta sicurezza

A proposito di L’infanzia dell’alta sicurezza, il sociologo Nando Dalla Chiesa ha scritto «Si viene presi da un turbamento fulmineo. Le convinzioni maturate sulla base di fatti durissimi, non di ideologie, si increspano… Che cosa pensare di fronte a queste parole che fluiscono a metà tra la poesia e la scimitarra? Sembra un miracolo. Si è costretti a farsi domande…si è su una strada il cui valore è incalcolabile. Queste donne, anche se non denunciano, non tradiscono, possono diventare un fatto esemplare per il Paese». Per lo psicanalista Massimo Recalcati, conversando con le detenute attrici dopo lo spettacolo, «Questo testo è una preghiera. Voi nello spettacolo siete una preghiera. La preghiera non è mettersi in ginocchio e pregare. San Francesco alla fine della sua vita diceva ‘Io non prego più, non prego più perché sono una preghiera’. È questo che ho sentito nelle vostre storie». Così si è espresso il critico teatrale Oliviero Ponte di Pino durante un convegno internazionale di studi «Ci avviciniamo, con queste testimonianze di infanzie mafiose, al nucleo incandescente di esperienze da cui nasce la tragedia. Grumi che, all’interno del carcere, ancora sanguinano e continuano a fare male» (lds)

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