«Se hai una premessa stupida, devi risolverla e liberartene entro i primi dieci minuti del film», mi diceva qualche mese fa un grande regista/sceneggiatore americano, spiegandomi l’Abc della drammaturgia made in Hollywood. Invitato alla conduzione della cerimonia di premiazione dell’ottantesima edizione dei Golden Globes, tenutasi martedì sera nel salone dei banchetti dell’Hilton Beverly Hills, il comico afroamericano Jerrod Carmichael deve aver fatto tesoro di quella pillola di saggezza. Esordendo con «Sono qui perché’ sono nero»; proseguendo con la rivelazione che il suo cachet per la serata sarebbe stato di mezzo milione di dollari e concludendo: «Il mio assunto è che la Hollywood Foreign Press non si cambiata per niente», il trentacinquenne di Winston-Salem ha aperto la cerimonia mettendo in tavola tutte le carte della partita che si giocava dietro al ritorno nel prime time dei Golden Globes, dopo un anno di black out e il periodo – tra l’inferno e il purgatorio – in cui l’organizzazione della stampa straniera hollywoodiana cercava di ripulirsi l’immagine, e i ranghi, dalle accuse di razzismo e corruzione esplose in pubblico a partire da un’inchiesta del 2021 pubblicata sul «Los Angeles Times». Gestito all’inizio, e con una certa eleganza (Carmichael ha adottato un tono pacato, evitato in gran parte le battute over the top con cui si erano distinte certe conduzioni del passato, e spesso scelto di stare di lato, piuttosto che al centro del palcoscenico), quello che gli americani chiamano the elephant in the living room, ovvero l’elefante nel soggiorno, la serata è continuata nel solito susseguirsi delle premiazioni, in una generale atmosfera di sollievo, punteggiata solo da qualche momento d’imbarazzo.

A PARTE alcune defezioni celebri – Kate Blanchett, Brendan Frazer, Tom Cruise, che aveva restituito alla HFPA le sue tre statuette – motivate da impegni sul set o, come nel caso di Kevin Costner (miglior attore in una serie Tv drammatica, per Yellowstone), dal tempo inclemente che sta flagellando la California, la seria A hollywoodiana ha accettato il ritorno del figliol prodigo. Con Steven Spielberg, Brad Pitt, Margo Robbie, Eddie Murphy, Guillermo Del Toro e Ryan Murphy in prima fila (l’attuale uomo più potente della Tv Usa era il premio alla carriera di quest’anno, insieme a Eddie Murphy), il motto della serata si può riassumere in the show must go on. Tra i milioni della pubblicità (50 circa per gli spot), la ricaduta della cerimonia su business attigui, come la moda, e l’impennata di vendite di biglietti nei cinema che deriva dalle nomine o dalla vittoria, I Globes sono un giro d’affari di cui l’industria non vuole fare a meno. Premiati e presentatori delle statuette hanno riflesso palesemente il nuovo corso della HFPA, all’insegna della diversità (da zero, i membri afroamericani dell’associazione sono diventati sei, su un totale di novantasei). Parte del «nuovo corso» forse anche l’aria più abbottonata e corporate di quella a cui eravamo abituati. Non un caso: tra le riforme a cui l’Associazione si è sottoposta c’è un passaggio fondamentale. Da organizzazione indipendente no profit, la HFPE è diventata di fatto una proprietà del suo CEO, il multimiliardario Todd Bohely (padrone delle squadre sportive dei Dodgers e dei Chelsea) e del suo gruppo finanziario, la Eldridge Industries, di cui fa parte anche la casa di produzione dei Globes, la Dick Clark Production. Nel nuovo assetto, ha spiegato Bohely al «Los Angeles Times» in una recente intervista, i giornalisti dell’associazione sono diventati impiegati stipendiati, a partire da circa 75mila dollari l’anno.