Visioni

Linda Collins, tra chitarre e elettronica nella luce languente dell’autunno

Linda CollinsLinda Collins

Musica Il nuovo album «Choises», emotività scandita dall’ossimoro

Pubblicato 2 giorni faEdizione del 26 ottobre 2024

Appena uscito da Ultravox – non so se il nome viene da quegli Ultravox che fecero Dancing With Tears In My Eyes, forse il brano più bello degli anni Ottanta insieme a Moonlight Shadow di Mike Oldfield: fatto sta che negli ultimi tempi è divenuta etichetta di punta in Italia, almeno per quanto riguarda varie psichedelie; o una fenomenologia della canzone (tra pop, rock, folk); l’arte dell’arrangiamento, tra acustica ed elettronica – Choises dei Linda Collins è intriso di quella luce languente propria dei soli autunnali (la stessa che si sente in Oath dei Mono, altro frutto di stagione, altra «primizia del deserto»: la desolata raffinatezza dei suoni, la mesta estasi dei reverberi), di quella «luce a cavallo» che spesso t’abbaglia, oro sfrenato, sfrontato, dritto negli occhi, la bocca; spesso t’accascia mentre vi scovi dentro la fisiologia della caduta, l’appassito conforto della catastrofe, la nostalgia per non si sa bene cosa, non tanto qualcosa o qualcuno che non ci sia più, ma che forse ancora non c’è.

È così quest’ultimo disco dei Linda Collins, scandito dall’ossimoro, che forse è la proprietà più intima di ogni suono: il bagliore in fondo a un’emotività scorciata, esausta, verso cui procede l’apnea musicale; e l’emersione addirittura euforica dopo la catabasi, a riveder le stelle, fredde; un crepuscolo sontuoso, grondante di sangui, di succhi sonori color ocra, con gli ori degli arpeggi che mimano (a tratti minano) la fertilità del dolore; una vendemmia di memorie, di strazi, di sogni.

IN QUESTO autunno sonoro, in questa smagliante «caduta di fono», resiste la forma canzone (tra Sparklehorse, Bon Iver, fino ai confini del post-rock) e splende la voce addirittura miracolosa di Benedetta Sitgu: Sunbeams che apre il disco è trionfo di arrangiamento, di un arabesco che intreccia il presente fremente e la promessa di un futuro suadente, sensuale, incarnati dalla voce (benedetta, che poi in A Lonely Planet sembra come «bjorkare»), a un passato che viene da lontano, a cavallo della tromba ruminante di lontananze, di ripensamenti, di cose perse. «Take cares of memories» recita l’altro capolavoro del disco, A Second Life, tra lo stillicidio della chitarra e un vago «spleen» di elettronica, fino alla festa di fine vendemmia (Black Roses #2): la fisarmonica, così ebbra di mosti, di miasmi sbottati che stagliano in una qualche aranciata nuvolaglia l’ultima danza.

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