«Capisco l’entusiasmo di chi guarda le cose da lontano, ma qui in Afghanistan trent’anni di guerra ci hanno abituato giudicare i fatti, non le parole». Seduto nel suo ufficio di Kabul nel quartiere popolare di Deh Afghanan, il direttore della Foundation for Culture and Civil Society, Timur Hakimyar, guarda con scetticismo alla notizia dell’apertura dell’ufficio politico dei Talebani in Qatar. Lo fa ancora prima che il presidente Karzai, ieri pomeriggio, decidesse di interrompere i colloqui con gli Stati Uniti sull’accordo di partenariato strategico. Per il “sindaco di Kabul”, gli americani ancora una volta avrebbero escluso il governo afghano dal processo di pace, relegandolo a un ruolo di comprimario. Lo scetticismo di Timur Hakimyar non è insolito da queste parti. Al contrario, è un atteggiamento molto diffuso. E non dipende dalla notizia che, appena dopo aver aperto ai colloqui, i “turbanti neri” abbiano rivendicato l’attentato che ieri ha causato la morte di 4 soldati americani nella base di Bagram, a nord di Kabul.

Nonostante lo scetticismo di fondo, in Afghanistan molti sperano in un negoziato di pace. Perché della guerra sono tutti stanchi. Tra gli afghani – tra quelli incontrati nel corso di cinque mesi di ricerca in 7 diverse province per un rapporto commissionato dalla rete Afgana (www.afgana.org) – prevale infatti l’idea che occorra imboccare la strada del negoziato politico. «La guerra provoca morte e distruzione. Non ci sono guerre che non siano distruttive. Ci sono solo perdenti, nessun vincitore. Per questo vanno promossi i meccanismi di riconciliazione», mi ha spiegato qualche mese fa Ali Wardak, che insegna al Center for Criminology dell’università gallese di Glamorgan e torna spesso a Kabul. Anche per Qader Rahimi, responsabile per l’area occidentale della Commissione indipendente per i diritti umani, le armi non portano da nessuna parte: «Le armi non risolvono i problemi, li creano soltanto. In trent’anni non ho mai visto risolvere un problema con le armi». Il negoziato, però, va affrontato con cautela, sostiene Qader Rahimi: «Finora nessuno sembra averne valutato le implicazioni. Se io ora la picchiassi e poi le dicessi, “bene, ora vogliamo diventare amici?”, lei cosa risponderebbe?», sottolinea Rahimi nel suo ufficio di Herat. A Bamiyan, capitale dell’omonima provincia a prevalenza hazara, gli fa eco Habiba Sarabi, la governatrice: «Le armi non sono l’unica soluzione. Alla fine di ogni guerra ci deve essere la pace, che si ottiene solo con un negoziato. Ma va realizzato seguendo una strategia appropriata». Per Habiba Sarabi «il modo in cui si costruisce il negoziato è essenziale»: possono derivarne esiti fruttuosi quanto disastrosi. I metodi adottati finora dal governo afghano sono considerati nel migliore dei casi inappropriati, nel peggiore controproducenti. Quel che manca, sottolineano in molti, è la chiarezza su chi debba parlare con chi, e soprattutto per quale scopo.

Nel marzo 2012 il centro di ricerca International Crisis Group ha pubblicato il report Talking about Talks: Toward a Political Settlement in Afghanistan. Nel rapporto, gli autori criticano quello che definiscono come un approccio da «mercato-bazar». Una definizione appropriata per molti afghani. «Tra tutti i grandi giocatori della partita, nessuno gioca onestamente: la comunità internazionale non fa pressioni sul Pakistan, il Pakistan fa il doppio gioco, il governo include anche esponenti dell’opposizione dell’Hezb-e-Islami, il partito di Hekmatyar. In molti hanno interesse a proseguire la guerra», sostiene Raz Mohammad Dalili, direttore dell’organizzazione non governativa Sanayee Development, che chiede una strategia coordinata che metta fine «allo scenario infinito che ricorda certe soap-opera indiane». Per Sima Samar, portavoce della Commissione indipendente per i diritti umani, «per prima cosa si dovrebbero individuare i nemici e gli amici, altrimenti si rischia di girare in tondo. Dovremmo chiarire chi deve parlare e con chi, con quali mezzi e per quale obiettivi». Sima Samar imputa una scarsa chiarezza anche ai Talebani: «Non hanno mai reso pubbliche le loro richieste. Continuano a dire che parlano solo con gli americani, ma allo stesso tempo li considerano occupanti e non vogliono parlarci. Sono tutti molto confusi», mi ha detto nel suo ufficio di Kabul. Quanto al governo afghano, «la stessa composizione dell’High Peace Council dimostra che sui temi della pace manca un impegno serio».

L’Alto consiglio di pace è l’organismo istituito nel 2010 dal presidente Karzai per favorire i colloqui di pace con i movimenti anti-governativi. Fino al suo assassinio nel settembre 2011, il consiglio era guidato dall’ex presidente dell’Afghanistan Burhanuddin Rabbani, leader del partito Jamiat-e-Islami. Il suo posto è stato preso dal figlio, Salahuddin. La composizione del Consiglio e il fatto che la leadership sia affidata al rappresentante di un partito che in passato ha combattuto i Talebani è fortemente criticata. «È molto difficile che un organismo come l’High Peace Council riesca a ottenere risultato duraturi. La ragione è semplice: non è accettato da tutte le parti in conflitto», mi ha detto nel suo ufficio di Jalalabad, lo scorso dicembre, Zia Urraham Tariq, rappresentante del Civil Society Human Rights Network, uno dei network più estesi della società civile. «Tradizionalmente, qui risolviamo le controversie con le jirga, le shura, i consigli locali. Alla base, c’è l’idea che ci sia bisogno di un attore terzo, considerato neutrale dalle parti in conflitto», mi ha spiegato Hambdullah Arbab, artista e coordinatore della Youth in Action Association di Jalalabad. Per Arbab, «oggi la mediazione è affidata a criminali considerati di parte. Come aspettarsi la pace?».

Se l’Alto consiglio di pace è considerato un organismo di parte, anche il versante talebano è percepito con sospetto. Soprattutto da parte delle donne, che non si fidano delle reali intenzioni dei seguaci del mullah Omar e che temono che i loro diritti possano essere sacrificati per un accordo politico tra uomini. «In linea di principio sono d’accordo nel dialogo, ma mi chiedo che tipo di dialogo si possa avere con gente che uccide i civili in un modo così atroce. Neanche gli animali fanno cose simili», obietta Lailuma Sediqi, a capo del dipartimento per gli affari femminili di Farah, nel sud-ovest dell’Afghanistan. Anche per Farzana Arsa, giovane studentessa e giornalista di Mazar-e-Sharif, «i colloqui di pace sono inutili. I Talebani hanno fatto esplodere delle bombe anche il primo giorno di Eid, la festa islamica. Come possiamo fidarci?». Per Bilgees Attaye, che a Maimana, nella provincia nord-occidentale del Faryab dirige la Developing and Education Organization for Women, «non c’è alcuna garanzia che, una volta “presi a bordo”, i Talebani non ripetano ciò che già hanno fatto in passato». «Anche se i Talebani dovessero giurare mille volte di interrompere le attività militari, non dovremmo fidarci. Come potremmo, se compiono attentati suicidi contro i civili?», le fa eco Enjila Surkhabi, che per la stessa organizzazione segue le attività di genere.

Puntare lo sguardo solo sugli attori afghani, governo e Talebani, rischia di far perdere di vista la questione principale, dicono in molti: il fatto che i Talebani siano etero-diretti, e che quello afghano sia un conflitto di natura regionale. «Per ottenere la pace non c’è bisogno di aprire un ufficio politico dei Talebani in Qatar: basta parlare con i loro referenti in Pakistan», sostiene con convinzione Idrees Zaman, direttore del centro di ricerca di Kabul Cooperation for Peace and Unity. «I Talebani non decidono da sé. Questo è il punto», ribadisce Ahmad Qureishi, chief reporter per la provincia di Herat dell’agenzia Pajhwok, per il quale «sono i servizi segreti pakistani che gli impediscono di accettare un piano di pace». Per Saeed Niazi, direttore del Civil Society Development Center di Kabul, «è impossibile parlare con i fantocci del Pakistan». «Il vero, grande problema è che questa non è una guerra afghana. La pace dipende dagli Stati Uniti, dall’Iran, dal Pakistan, dalla Cina, dalla Russia. Da solo, il governo afghano è impotente», afferma Azim Resalat, giornalista a Mazar-e-Sharif per Radio Killid, network di radio indipendenti. Ancora più esplicito è un altro giornalista, Ali Erfan, direttore di Radio Bamiyan: «La Nato avrebbe la forza necessaria per sconfiggere i Talebani. Non lo fa perché in questo modo può controllare l’Asia centrale», sostiene Ali Erfan, che dà voce a una sensazione molto diffusa: quella che i paesi occidentali, in particolare gli Stati Uniti, non abbiano davvero intenzione di stabilizzare l’Afghanistan, così da poter mantenere una presenza in Asia centrale. «Se gli americani volessero la pace, la potrebbero ottenere. Non lo fanno, perché vogliono rimanere e contrastare l’espansione economica cinese», mi ha spiegato Baz Mohammad Abid, giornalista di Radio Mashaal, una costola di Radio Free Europe diffusa sul confine tra Afghanistan e Pakistan. Per Sher Alam Amlawal, docente di scienze politiche all’università privata Aryana, a Jalalabad, «se gli Stati Uniti pensassero che un accordo con il mullah Omar portasse dei benefici, lo farebbero oggi stesso. Ristabilirebbero perfino un Emirato islamico». Per ottenere una pace di lungo periodo, afferma Amlawal, «c’è bisogno che gli americani negozino direttamente con i pakistani». Karzai non sarebbe d’accordo. Ma per gli afghani dopotutto questo conta poco.