La fisica e la poesia: sono un ossimoro, o una contraddizione, solo in apparenza. Diverso è il loro statuto, così il loro atteggiamento verso il mondo. L’una il mondo vuole spiegarlo, l’altra lo accetta anche nella sua incomprensibilità, e vuole solo cantarlo. La fisica cerca risposte alle proprie domande, la poesia non teme lo sperpero né la gratuità del proprio darsi, della propria parola. Non è detto che la poesia coincida tout court con qualunque suggestione proveniente dal mondo e dai suoi fenomeni. La fisica può essere poetica ed emozionante, anche questo è vero, ma come lo sono un tramonto, un’alba, un suono leggero che attraversa il silenzio. È il mondo a essere poetico, in ogni sua espressione; e la poesia non per forza coincide con le emozioni che ne riceviamo. La zona di tangenza e di reciproca integrazione consiste, piuttosto, nell’attitudine della poesia a farsi carico di quella quota di mistero di cui neppure la fisica riesce a dare conto e spiegazione. Una quota di mistero permane sempre, e sempre permarrà: ed è intorno a questo mistero che fisica e poesia si interrogano e si sollecitano a vicenda.

LO MOSTRA ora l’ultima raccolta di Bruno Galluccio, la sua terza, intitolata Camera sul vuoto (Einaudi, pp. 140, euro 12). E lo conferma non solo perché Galluccio stesso è un fisico, oltre che un poeta, ma anche perché è esattamente questo il filo di senso che percorre la raccolta: e cioè l’indagine su ragioni che si intrecciano. Ma di più: a ben vedere, i versi che compongono la silloge rappresentano di per sé un perfetto equilibrio di razionalità e mistero, e di immanenza e trascendenza. Alcuni versi sono quasi espliciti nel dare atto delle ragioni intrecciate, come ad esempio quelli in cui Galluccio scrive: «l’ascolto della scienza richiede tutto l’impossibile/ ciascuno va avanti ancora per un poco/ e sa che non potrà conoscere risposte/ ai quesiti che lascerà in sospeso». Oppure quelli in cui riconosce che «non troppo indietro nel tempo possiamo regredire/ con l’album delle immagini dell’universo bambino/ c’è un limite prima del quale non ci è consentito spiare». Ma in fondo è altrettanto chiaro, Galluccio, anche nell’individuazione di quel «vuoto» (da cui forse deriva il titolo del libro) che nessuna scoperta scientifica e nessuna parola poetica saranno mai capaci di colmare, neppure nelle loro massime potenzialità espansive: ed è il vuoto di una relazione e di un abbraccio quando mancano, di una vicinanza quando la vorremmo e non la troviamo.

È IL VUOTO DEL DESIDERIO dei corpi, quando nessun corpo lo soddisfa, è il vuoto della solitudine quando la solitudine rimane tale: «e anche l’eventuale scoperta/ di un pianeta con forme viventi/ simili alla nostra/ sarebbe l’evento inaugurale/ di una solitudine in due nell’universo». In alcuni versi, distribuiti in ciascuna delle nove sezioni da cui la raccolta è composta, lo leggiamo quasi come nella tessitura di una trama: «si resta a volte svegli la notte per accorgersi dei letti altrui/ si ignora gran parte dell’universo da questa prospettiva»; «si cerca qualcosa che ci agganci/ al giorno successivo alla meta minimale»; «abbracciare una donna/ sentire tra le braccia i suoi minuti/ i raccordi tra le mani e la veste sospesa». Ecco: sono versi nei quali, qui sì, la poesia arriva a coincidere anche con l’emozione, o addirittura con una commozione, pur senza sconfinare nel lirismo. Ma ciò che Galluccio testimonia, più di ogni altra cosa, è come non esiste niente, ma proprio niente, che la poesia non possa assorbire e restituire.