Come in una pièce teatrale a metà tra lo stile de la Comédie Humaine di Balzac e una tragedia greca di Sofocle, Senza intellettuali. Politica e cultura in Italia negli ultimi trent’anni dello storico modernista Giorgio Caravale (Laterza, pp. 160, euro 18) si apre con una scena ambientata nel 1997– anno in cui l’intellettuale Omar Calabrese e i vertici del centro-sinistra organizzano un incontro presso il castello di Gargonza per elaborare il lutto della prima vittoria di Silvio Berlusconi – e si chiude con un’altra scena: quella che vede proliferare una serie di influencer seguiti da milioni di followers che discettano sui social di questioni politiche e culturali.

IN MEZZO TRENT’ANNI di storia burrascosa tra politica e cultura che hanno portato il paese ad assistere inerme a un «doppio movimento schizofrenico» – per citare l’autore del volume –: da un lato una politica che disprezza gli intellettuali appellati sbrigativamente come noiosissimi «professoroni»; dall’altro un ceto intellettuale che disprezza la politica, a meno che non sia utile e funzionale alle scalate «Io-cratiche» del potere nei regimi attuali della visibilità mediatica e nei processi di «amministrativizzazione» della sfera pubblica, la famosa «governance» che ha aperto poi la strada alla tecnocrazia.

E così, muovendosi con fermezza e garbo, talvolta persino con precisa sagacia e senza fare sconti a nessuna formazione politica, Caravale parte dalla crisi del modello gramsciano dell’intellettuale organico, attraversa tutto il tempo dell’intellettuale ad personam che caratterizzerà la fine dei Novanta a destra come a sinistra, critica il nesso tra intellettuali e populismo cavalcato da diverse formazioni politiche, sino a tracciare delle linee precise sul ruolo che la «svolta comunicativa» – come viene chiamata in sociologia – ha avuto e ha nella scissione sempre più netta e preoccupante tra politica e cultura o se vogliamo la progressiva eutanasia di ciò che un tempo a sinistra si chiamava «egemonia culturale».

Questa «politica senza intellettuali» accompagnata da una flotta di seguaci del marketing della comunicazione senza significazione, nel volume diventa anche la narrazione tragica di un’idea di «politica senza storia» sino all’esaltazione imperante della figura dell’«esperto» e del «tecnico», talvolta persino dello psicoanalista glamour di turno.

COSTORO, INFATTI, senza scrupolo alcuno, trasformano l’idea stessa di democrazia in una sorta di management del sé perennemente attraversato dal meccanismo della rimozione dei fantasmi della storia (non a caso per definire queste nuove figure professionali si usa il termine ghost writers) o dal modello del «guru», colui che guarisce le ferite del «disagio della civiltà» contemporanea.

E COSÌ, in questa «presentificazione» permanente, in questa «dimenticanza» collettiva del senso della storia – come la chiama Giorgio Caravale – si consuma anche un altro tragico doppio movimento che tra sociologi, invece, viene chiamato «deculturalizzazione» e «depoliticizzazione» di massa con esiti e risultati di cui ci si stupisce solo quando leggiamo i dati sull’astensione, senza tener conto di altri fenomeni come quello della violenza o della costruzione perenne del «capro espiatorio» o ancora della rabbia e del risentimento.

Molto belle e vibranti anche le pagine in cui l’autore descrive il progressivo passaggio dalla storia intesa come collante collettivo allo storytelling contemporaneo che mira, più che altro, a favorire quella cultura del narcisismo già abbondantemente spiegata da Christopher Lasch negli anni Ottanta, ovvero nel vero decennio che ha visto gli albori della rivoluzione digitale da un lato e la fine della Guerra fredda, nonché la caduta del Muro di Berlino dall’altro.

GLI PSICOANALISTI, a differenza degli storici e dei sociologi, sanno bene che quando si consuma una rottura o comunque un conflitto, in questo caso tra politica e cultura, va sempre ricercata una corresponsabilità. E anche su questo Caravale non fa sconti: per esempio, che ruolo svolgono le Università all’interno di questo disastro? Non è per caso arrivato il tempo di uscire dalla torre d’avorio delle Accademie per ripensare il mondo? In questo caso e attraverso questo libro, l’operazione sembra perfettamente riuscita. La speranza è che si continui così, ovvero «con» gli intellettuali.