Chissà che cosa pensano le persone quando scelgono di indossare magliette, felpe, maglioni con scritte o disegni al limite dell’autolesionismo. Un conto è prestare il petto a frasi scanzonate quali «Vivo nella speranza che i cinesi si comprino anche Barbara D’Urso», un altro è andare in giro con addosso frasi tipo «Meno male che non penso a voce alta» o «Sono già psicopatica, non posso essere anche magra». Quello che però non mi aspettavo è che una di queste sentenze comparisse anche nel bucato che due mie dirimpettaie appendono fuori dalla finestra.

Premessa sulle proprietarie dello stendino. Trattasi di una madre e una figlia gentili e molto ammodo. La madre è un’arzillissima vedova novantenne che va regolarmente in palestra e cammina diritta come un fuso. La figlia è una single di oltre sessant’anni colpita da piccola da una poliomielite importante. Avendo il bacino che va a sinistra e la schiena a destra, indossa solo abiti molto larghi e su misura. La madre, che ama moltissimo conversare, quando parla dei suoi congiunti non dice «mio marito» o «mia figlia», ma «il marito» e «la figlia» anche se la suddetta è lì accanto e la ascolta. Definiti con quell’articolo determinativo, i due diventano entità assolute, come se al mondo non esistessero altri mariti o altre figlie se non loro due.

Non so se sia questo misto di sventura ed elezione ad aver spinto una delle due a comprarsi una maglietta con disegnate due ali e la scritta «Cupid Game» che l’altro giorno faceva bella mostra di sé sullo stendino. Accanto, ondeggiava una castissima camicia da notte bianca e blu di cotone. Non ho potuto non chiedermi a chi delle due appartenesse il «Cupid Game». Alla madre o alla figlia? Se è della madre, che cosa la spinge a indossare, in casa o in palestra, una scritta così evocativa di amori adolescenziali e romantici? Forse la signora ha ancora una fervida immaginazione dei sensi e le piace sollecitarla con scritte allusive, la qual cosa, avendo lei novant’anni, è encomiabile e fa ben sperare per i nostri anni a venire. Se invece la t-shirt è della figlia, che non ha mai avuto una relazione di coppia, il sapore dell’allusione si fa molto più tormentoso perché spinge a ipotizzare desideri irrisolti, o amori lontani, o relazioni segrete. E se fosse un messaggio che lei indirizza al fisioterapista che viene regolarmente a trattarla? Il mistero si infittisce se si pensa che madre e figlia dormono nello stesso letto e da anni.

Comunque, quest’idea che l’inconscio parla anche attraverso i vestiti mi fu chiarissima quando vidi il maglione di Emme, gerente, con madre e sorella, di un piccolo e pittoresco ristorante sul mare. Era inverno ed Emme, non più giovane, dedita in modo maniacale al lavoro e mai fidanzata o sposata, ci comparve davanti con un maglione che aveva confezionato lei stessa. Sul davanti era disegnato un gigantesco camino con la legna accesa. Lunghe lingue di fuoco ardevano all’altezza della pancia e diventavano sempre più intense a mano a mano che si scendeva verso l’inguine da dove nasceva l’incendio, scoppiettante e vorace. Si rendeva conto, Emme, del messaggio subliminale che stava lanciando a chi la guardava? Aveva pensato, sferruzzando quel maglione, al simbolico che quel fuoco avrebbe espresso? Era consapevole che quel disegno proprio in quel punto assomigliava a un’invocazione straziante? Forse no. O forse il suo intento segreto era proprio di dichiarare, attraverso quel maglione, i suoi pensieri nascosti. In certi casi, prima di mettersi una maglietta, non sarebbe una cattiva idea andare dallo psicanalista.

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