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L’incognita a 5Stelle, al bivio tra destra e sinistra

L’incognita a 5Stelle, al bivio tra destra e sinistraLuigi Di Maio – LaPresse

Dopo il voto Per evitare un possibile sfibramento del sistema politico o i 5Stelle scelgono la via consociativa (con la destra) o confluiscono come perno in un nuovo centrosinistra

Pubblicato più di 6 anni faEdizione del 16 marzo 2018

Il voto è la certificazione della crisi della sinistra politica e sociale.

La catastrofe della sinistra politica segue i guasti accumulati in oltre vent’anni. La distruzione delle culture politiche di massa, in nome del partito personale, ha provocato un vuoto paralizzante nella capacità di trattenere, orientare.

Secondo una visione prevalente, il deficit della sinistra era quello di avere paura del leader. E quindi la ricetta vincente consisteva nell’accelerare le procedure verso i riti di investitura del capo.

Esiste una slavina lunga che coinvolge Prodi, Veltroni e precipita sino a Renzi che ha scelto la destrutturazione di antiche cose della sinistra.

Non solo le sezioni, ma persino i circoli erano sopravvivenze vetuste. Non si tratta di una semplice modellistica dell’organizzazione.

L’opzione per le primarie aperte nella corsa verso il partito leggero presidenzializzato, che eliminava la parola stessa congresso sciogliendola nei gazebo, sanciva la de-ideologizzazione del soggetto politico e la sua omologazione alle pratiche di un partito delle cariche elettive, senza radici identitarie per la rinuncia ad ogni idea di società da progettare con la grande politica.

La marcia della Lega nelle antiche regioni dell’insediamento comunista rappresenta la più rilevante cesura in termini storico-politici avvenuta nel voto di marzo. La destra ha spiantato le ultime finzioni di un partito erede della tradizione del civismo del movimento operaio e contadino, e ha mutato radicalmente la geografia delle culture politiche.

Non esiste più l’Italia rossa, e tutti i simulacri politici che la ricordavano sono stati falcidiati.

Le conseguenze di questa mutazione genetica dell’Italia di mezzo sono incalcolabili. Collassa ciò che di residuale restava ancora di una subcultura che anche come area di cuscinetto garantiva una sorta di collante nazionale capace di frenare le pulsioni di destra che nel nord produttivo erano diventate dominanti nella seconda repubblica.

La differenziazione territoriale tra un centro nord a forte trazione leghista e un centro sud a trascinamento 5Stelle rappresenta una incognita nella capacità di persistenza del sistema politico.

Se la polarizzazione tra destra e M5S è al tempo stesso una frattura tra gli spazi, e se le proposte economico-sociali alternative (reddito di cittadinanza o politiche redistributive e flat tax o Stato minimo in funzione dei produttori) si legano a un antagonismo a fondamento territoriale è evidente il rischio di sfibramento del sistema.

O si dà un approdo consociativo alla eruzione determinata dalle urne per ricucire il sistema (governabilità condivisa tra i due vincitori) o i Cinque stelle confluiscono, come componente egemonica, in un schieramento plurale di forze di centro e di sinistra ostili alla destra: oltre queste evoluzioni sistemiche, si restringono i margini per aggiustamenti disegnati da una forte spinta di sinistra.

Ma il dato politico della crisi del sistema non può offuscare il volto dell’altro grande malato: il sindacato del conflitto.

Malconcia, oltre a quella dei simulacri di partito, pare anche l’immagine del sindacato: non solo non orienta voti alle espressioni politiche “amiche”, ma palesa una perdita di insediamento e un deficit di cultura politica che ne dissolve la funzione storica.

Al centro nord l’operaio atomizzato e senza classe è stato sedotto dal verbo leghista (con più marcate adesioni però, e anche tra i quadri, verso il simbolo del M5S) e al centro sud è stato attratto dalle rivendicazioni sociali del M5S. Solo in questi termini deteriori il sindacato conserva una parvenza di coesione nazionale.

Si sgretola la connessione tra classe e politica, e il sindacato privo di rappresentanza appare come destinatario di una pura delega corporativa.

Ciò segna la crisi radicale del sindacato, che non riesce più a pensare in termini politici. Dinanzi alla lunga caduta del partito amico incapace di interpretare un ruolo nei conflitti della società, al sindacato restava una inedita opzione strategica, che però non è stata afferrata: invertire il rapporto gerarchico novecentesco tra partito guida e sua cinghia sindacale per farsi regista di un nuovo partito del lavoro, espresso dalle forze organizzate.

La formula della «coalizione sociale» qualcosa del genere comportava, ma è scomparsa e non ha lasciato né invenzioni organizzative né precisazioni politiche. Se la Lega è il tribuno del Nord e il M5S diventa il tribuno del Sud ciò vuol dire che non solo la politica ma anche il sindacato ha contribuito alla crisi democratica.

Certi discorsi interrotti, su come innestare soggetti del pluralismo sociale con la ridotta identitaria che comunque ha consentito di varcare la soglia di sbarramento, vanno al più presto riannodati.

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