Alias

L’incoercibile resilienza di ciò che ci rende umani

L’incoercibile resilienza di ciò che ci rende umani

Festival Presentato a Bellaria "Cento anni" di Davide Ferrario, viaggio nell'ultimo decolo di storia italiana

Pubblicato quasi 6 anni faEdizione del 5 gennaio 2019

1917 e Cento anni. Lontano anni luce dalla retorica rumorosa e autoincensante di tanta politica di adesso, con il documentario presentato alla 36ma edizione di Bellaria Film Festival (la nuova direzione è di Marcello Corvino), Davide Ferrario affina ulteriormente il suo percorso di ricerca tra le maglie della storia italiana, non temendo di trangugiare goccia dopo goccia la mistura micidiale di quattro Caporetto, ossia di quattro catastrofi della vita civile di questo Paese. Perché “Nella sconfitta è più chiaro vedere chi siamo”.

1918 e una foto con alcuni dei bambini dell’Ospizio dei figli della guerra a Portogruaro: sono “figli minori e sfortunati” della débâcle conosciuta dagli italiani il 24 ottobre 1917 per opera degli austroungarici e dei tedeschi, figli nati inconsapevolmente dagli stupri subiti dalle loro madri, costrette a separarsene, a rivelarne il motivo e a fornire il permesso del marito, che spesso rifiuta violentemente di avere in casa il figlio del nemico. Quindi oggi, tra vette innevate, foto in divisa e tombe, la camera abbraccia i muri tondeggianti dell’Ara Pacis Mundi di Medea a Gorizia con i nomi dei caduti fino alla pietra dei duemila ignoti: nel suono del violoncello di Mario Brunello la scia della più grande sconfitta nella storia dell’esercito italiano, i destini maciullati dei profughi e dei prigionieri.

Poi, mentre rintocca per tutto il film la domanda, “a cosa servono i morti?”, un flash nel 1922, filmato di repertorio tremolante e il terrore negli occhi di una lepre ghermita dal gesto violento di un camerata; nella voce over la storia di Ulisse, nonno del chitarrista Massimo Zamboni, prima reduce della grande guerra e poi squadrista, ucciso di spalle nel ‘44 da due partigiani, Alfredo Casoli “Robinson” e Rino Soragni “Muso”. E ancora “il cerchio del dolore che non si chiude”, il veleno che portava a non accogliere i “traditori” sopravvissuti di Caporetto, continua a colare, attraverso la seconda guerra mondiale e la Resistenza, fino al dopoguerra, quando i due bambini che, nel filmino di famiglia giocano alla guerra, uno vestito da cowboy e l’altro da indiano (sono forse fratelli?), diventano Robinson e Muso: è il primo, dopo essere stato espulso dal PCI e dimenticato, a uccidere l’antico amico.

Poi piazza della Loggia a Brescia, 28 maggio 1974. L’audio della manifestazione contro il terrorismo neofascista, quindi lo scoppio, insostenibili scatti dei corpi trucidati, mentre emergono i volti odierni dei parenti. Bianco e nero trasfigurato. Nel racconto di Manlio Milani, senatore a vita e presidente dell’Associazione familiari dei caduti, il ricordo privato della richiesta di lavare il viso alla moglie, Livia Bottardi, giunta in ospedale senza vita, ma anche nel tempo la consapevolezza della propria soggettività come memoria storica. Negli altri racconti, il dolore senza risposte, la tentazione di abbandonare il farsi parte civile dopo i due verdetti senza colpevoli (non così quello della Cassazione – 2015 – che condanna Carlo Maria Maggi e Maurizio Tramonte all’ergastolo). E poi la trasmissione, dai 600mila che accorsero per i funerali nel ’74 fino alle giovani generazioni, fino agli immigrati oggi italiani con la voglia di capire la storia del luogo che li ha accolti.

Infine quella che Franco Arminio, guida nell’ultimo “capitolo” del documentario, definisce la “Caporetto demografica dei nostri giorni”. Soprattutto al Sud. Il suo movimento di attenzione affettuosa per le strade tra Basilicata e Irpinia, tra fabbriche dismesse e paesini dove rade appaiono le presenze umane, come rovine di terremoti mai superati, disvela la mancanza di quel tessuto sociale che, pur nella miseria, creava una rete di sostegno. Come finirà? Questi luoghi saranno definitivamente abbandonati? Ai ragazzi Arminio chiede di essere il prodigio tra il passato e il futuro…

Lasciando agli storici le riflessioni sulle infinite intersezioni tra gli eventi narrati, il lavoro di Ferrario attrae dunque per la fluidità con cui, con quattro approcci stilistici differenti, miscela immagini date del passato e detour attraverso il presente, toccando con un’unica freccia i processi di desertificazione spirituale di un Paese, i loro riverberi oscuri, e la commovente incoercibile resilienza di ciò che ci rende umani.

I consigli di mema

Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento