Non c’è forse momento più adatto di una bizzarra vigilia elettorale nella quale si può avere la sensazione piuttosto sinistra di assistere ad un match dall’esito già noto, per tornare ad interrogarsi sul ruolo che il «saper raccontare delle storie» può assumere nel mondo in cui siamo immersi. È quanto ci invita a fare Jonathan Gottshall che da studioso della letteratura anglosassone, ma anche della relazione tra scienza e cultura, temi su cui si esprime abitualmente dalle pagine del New York Times, del New Yorker o di The Atlantic, ha già indagato ne L’istinto di narrare (Bollati Boringhieri, 2018), il ruolo «positivo» che «le storie» hanno svolto nel corso del tempo nel definirsi dell’umanità per come la conosciamo oggi.

ORA, PERÒ, lo stesso studioso statunitense richiama la nostra attenzione sulla possibile deriva che questo istinto narrativo, evidentemente innato nell’uomo, può produrre. Il lato oscuro delle storie. Come lo storytelling cementa le società e talvolta le distrugge, appena pubblicato da Bollati Boringhieri (pp. 274, euro 24, traduzione di Giuliana Olivero) – che Gottshall presenterà nell’ambito del festival Pordenonelegge, domenica 18 settembre alle ore 11,30 presso l’Auditorium Istituto Vendramini insieme a Alberto Garlini -, evoca il portato che le narrazioni tossiche hanno assunto nei secoli, ma anche lo scenario nel quale sembrano trovare la loro più evidente e piena affermazione: l’attuale sfida per l’egemonia, spesso non solo simbolica, lanciata dal composito fronte delle nuove destre, verrebbe da dire, sul piano globale.

GOTTSCHALL INTRODUCE l’argomento, decisamente complesso, con un esempio che non consente però alcuna incertezza. Racconta infatti della strage compiuta il 27 ottobre del 2018 nella sinagoga Tree of life di Pittsburgh da Robert Bowers al grido di «Tutti gli ebrei devono morire» e imbracciando un fucile semiautomatico AR-15 e tre pistole Glock. Partecipando alla veglia per le undici vittime, l’autore che insegna proprio in Pennsylvania si interroga su cosa abbia trasformato un ex panettiere di quarantasei anni, da qualche tempo disoccupato, in un sanguinario assassino razzista.

E la risposta sembra apparire perfino scontata: «Tutto questo, pensavo tra me e me, tutta questa cappa di morte e di dolore è dovuta a una storia». Una storia, precisa Gottschall, che comincia con il Nuovo Testamento e procede di sermone in sermone «e incitando a un pogrom dopo l’altro», da Ponzio Pilato che si lava le mani ai Protocolli dei Savi di Sion e fino ai manifesti razziali pubblicati su siti neonazisti come Stormfront: una vecchia storia raccontata con innumerevoli varianti fino ad oggi che parla degli ebrei come i fautori di «una cospirazione plurimillenaria per arricchire e fortificare se stessi, e immiserire e schiavizzare tutti gli altri».

SE L’ANTISEMITISMO, via via di matrice religiosa, sociale o razziale incarna il prototipo più antico e consolidato di una «narrazione» nel segno dell’odio e dell’idea di complotto sulla quale spesso si sono andate poi edificando altre forme di pregiudizio e di rifiuto, è evidente come i meccanismi messi in campo evochino il fondo di commercio di molti propagandisti della paura e dell’inquietudine che oggi vanno per la maggiore. Come drammatiche distopie che possono trasformarsi in realtà, la diffusione dell’odio antiebraico e le sue conseguenze lo insegnano tragicamente, ci sono «storie» in grado di cambiare per sempre le vicende umane.

Perché, come ricorda Gottschall, «la narrazione empatica è tra i migliori strumenti che abbiamo per superare i pregiudizi, ma è anche il modo in cui quei pregiudizi li costruiamo, li codifichiamo e li trasmettiamo». Una tendenza, questa, nata perciò ben prima dell’avvento dei social media o dell’era della cosiddetta «post-verità» e delle fake news e che in qualche modo ha accompagnato lo sviluppo stesso del genere umano come una sorta di inquietante doppelgänger delle idee di libertà e emancipazione. Le fasi di crisi, sociali, culturali, «di senso» offrono però uno scenario spesso più favorevole ai profeti dell’odio, come illustra Gottshall citando il lavoro in controtendenza compiuto da un brillante scrittore come Robert Penn Warren, autore nel 1946 del romanzo Tutti gli uomini del re, da cui sono stati tratti almeno due film memorabili, sagace parabola sui rischi del populismo.

Difficile immaginare antidoti infallibili, ma sottoporre quanto ascoltiamo alla prova dei fatti resta un metodo perlomeno utile, come anche dubitare di chi sembra più interessato a confezionare «una bella storia» che a spiegarci come qualcosa possa o meno funzionare. Sul fondo, ammette però Gottschall, è solo proiettando su noi stessi i «sospetti» che riserviamo sovente agli altri, specie quando sono i protagonisti di qualche narrazione tossica, che possiamo forse limitare lo strapotere dello storytelling sulle nostre vite. Cercando di distinguere tra realtà e finzione, anche quando la seconda appaia drammaticamente più consolatoria della prima.