Visioni

L’incanto pop dell’arte

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Cinema Un esercito di piccoli trovatelli che riempie l’immaginario Usa della middle e working class offrendo dipinti popolari a buon mercato É la formula «Keane», Walter e sua moglie, a cui si ispira il nuovo film di Tim Burton, Big Eyes

Pubblicato quasi 10 anni faEdizione del 31 dicembre 2014

Perché mai vendere quadri per i salotti degli americani upper class? I ricchi che circolano sono sempre in numero minore rispetto ai poveri. Meglio commercializzare cartoline, manifesti, calendari: è la quantità che crea capitale, non la qualità. E l’arte entra nelle case molto più facilmente se resa popular e comprensibile. Se tocca le corde dei sentimenti e chiunque può permettersela per pochi spiccioli. Con cinque dollari ripetuti per migliaia di volte, si diventa miliardari. La ricetta giusta esiste: nessun capolavoro da piazzare al Moma di New York, ma una serie di gadget per apparecchiare un immaginario fruttuoso, popolandolo fino alla nausea con un’invasione di trovatelli. Un esercito di bambini derelitti con gli occhi sproporzionati, troppo grandi per essere reali, possono essere calamite potentissime per lo sguardo dell’americano middle e working class. Soprattutto quando, nel dopoguerra e negli anni Sessanta, sognava il benessere e si dedicava ad arredare con cura maniacale la sua villetta munita di garage e prato ben rasato.

 

 

Eccolo qui il segreto del successo della formula «Keane» che Tim Burton ha portato sullo schermo: un’infinità di dipinti – passati presto dall’unicità della tela all’economica carta stampata con tirature enormi – di piccoli orfani e animali randagi che riempirono gli scaffali dei supermercati Usa proprio negli anni in cui le casalinghe infilavano nei loro carrelli i barattoli di Campbell’s Soup, ignare che quel sugo seriale sarebbe diventato un pezzo da museo di lì a poco, grazie alla firma di un genio della pubblicità come Andy Warhol. C’è una scena, nel film Big Eyes di Burton, che ricorda proprio questa coincidenza magnetica che procurò uno scambio sociale rivoluzionario: il consumatore al posto dell’intellettuale.

 

 
Il biopic del regista è animato da due registri: in uno, segue un’idea di arte democratica, che piace al pubblico e non ai critici, anche se kitsch e improponibile (in fondo, si trattava della stessa battaglia concettuale fra Espressionisti Astratti, fautori dell’Action Painting e «autori» pop della Factory) e nel secondo, vigila sulla vita di Margaret, donna sottomessa, dominata da un marito millantatore, che accetta di essere depredata della sua creatività per decenni, trasformandosi in truffatrice, complice della sua sparizione. Quando, all’inizio del film, Margaret fugge da sola con la figlia in macchina verso san Francisco, abbandonando il primo marito, sembra che la sua vita stia per decollare, sterzando verso la libertà, ma non sarà così. Rimarrà impigliata nell’incredibile vicenda che contribuirà a creare. Lei, pittrice ossessionata da bambini che sgranano i loro malinconici occhi sul mondo, verrà messa all’angolo da un marito venditore che le promette di realizzare – attraverso la sua arte – l’American Dream alla perfezione. Se nessuno, d’altronde, comprerebbe un quadro fatto da una donna, meglio firmare le opere al maschile, innescando un gioco tra vittima e carnefice dal quale, alla fine, sarà però stritolato. Posseduto dalla sua impalcatura di menzogna, in principio Walter Keane inventa un folle personaggio che conquista le masse. Margaret (quella vera), anni dopo, uscita vincitrice dalla causa intentata all’ex marito per frode, confesserà che nessuno avrebbe apprezzato la sua pittura se quell’uomo vanesio non l’avesse propagandata con tanto fervore, dando a credere e, infine, credendo che fosse sua. Gli riconoscerà il «merito»di aver piegato la realtà all’inganno.

 
Piuttosto tradizionale nella narrazione che di visionario questa volta ha soltanto la macroscopica bugia su cui si fonda tutta la storia e la tenace identità di impostore del signor Walter Keane, il film di Tim Burton potrebbe rappresentare una delusione per chi si è affezionato al suo tocco dark. Eppure, il tema è quello di sempre: la capacità manipolatoria dell’allucinazione, la stessa che dettava legge in Big Fish. Anche lì, il protagonista Edward Bloom aveva il dono di un’affabulazione stupefacente, impossibile aderire alle sue fandonie se non con lo stupore di un bambino che mantiene intatto il gusto di sognare.
Walter Keane e sua moglie Margaret (lei in forma di fantasma suggeritore) sono stati degli incantatori. Maghi che hanno trasformato l’arte in oggetto da shopping center, mescolando l’alto e il basso della cultura, chiamando in causa collezionisti come i divi di Hollywood – da Natalie Wood a Joan Crawford fino a Dean Martin – ma anche smaliziati creativi. Hanno costruito un colossale miraggio. Tim Burton è stato un fan assoluto dei loro big eyes e le sue creature fantastiche hanno contratto più di un debito con quegli occhioni spalancati sull’aldilà.
Nel 1965, Margaret presentò istanza di separazione, rimanendo una stretta partner commerciale dell’ex marito, sempre all’ombra della menzogna e lasciando a Walter l’onore della cronaca e della gloria. Poi si risposò e solo allora intentò una causa legale per riappropriarsi di ciò che era suo, spinta dalla nuova consapevolezza di sé acquisita negli anni, ma anche dai testimoni di Geova a cui si era appoggiata in momenti difficili. Oggi ha ottantacinque anni, ancora dipinge e a chi gli chiede perché mai abbia accettato quell’assurda storia, risponde che, in fondo, era stato più facile mantenere in vita la bugia e tradire se stessa che affrontare la verità.

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