Questo cognome, Monk, mi gira in testa da un po’…
Certo, Thelonious, il mio pianista dissoluto preferito.
Ah sei un jazzofilo, quindi! No, adesso ci sono: mi gira in testa quel cognome insieme al nome Meredith.
Sono un jazzofilo ma mica un cretino. Meredith Monk, grandissima musicista. La conosco e la amo.
Mi fa piacere. Ecco il motivo per cui stavo pensando a lei, finalmente mi ricordo: compie ottant’anni e le fanno una specie di monumento.
Non dirmelo, una statua? Un murale gigantesco sulla Quinta Strada?
Macché! Dicevo così per dire. L’Ecm pubblica nell’occasione, che è il 20 novembre di quest’anno, un cofanetto di tredici cd con tutte le sue registrazioni per la casa di Monaco dal 1981 al 2016.
Ricordo bene Dolmen Music. Mi è rimasta la memoria di un incantamento, di qualcosa che sapeva di primitivo, non so, e nello stesso tempo di innovativo. Ricordo una voce, la sua, che vagava lungo melodie ben definite e ogni tanto, su una base strumentale ripetitiva, prorompeva in piccole grida in cerca di un ancestrale da rivivere, da reinventare, e ricordo certi ricorsi ai modi dello jodel.
Quello è il primo album per l’Ecm. Nel corso del tempo si arriverà all’ultimo finora uscito: On Behalf of Nature. Passando per titoli come Book of Days e Atlas. Ti cito questi due per ricordarti che non c’è solo la sua voce nelle opere di Meredith. In uno il suo Vocal Ensemble è accompagnato solo da una tastiera, nell’altro, che è una vera opera lirica, agiscono 19 vocalisti e 11 strumentisti. Ma proprio in Dolmen Music forse ti tornano in mente quei piccoli cori maschili e femminili, e nelle parti a cappella di questi cori che hanno un sapore di religiosità arcaica, quasi da gregoriano, la mente va ineluttabilmente al coro che si ascolta all’inizio di Einstein on the Beach di Philip Glass.
Vuoi insinuare che Monk è una esponente del minimalismo?
No no, non insinuo niente. Per Meredith la definizione è adatta solo per le basi strumentali, a volte scarne a volte più ampie e orchestrate.
La sua voce, le sue voci, sono tutte da sperimentare in tanti modi, se ben ricordo.
Certo. Fin dagli anni Sessanta del secolo scorso questa artista che non è solo vocalista ma compositrice, danzatrice, attrice, coreografa, filmaker ha affermato il desiderio di fare della voce gli usi più folli, più estesi. In realtà la sua sperimentazione è andata verso una ricerca dell’arcaico e delle propaggini del folk di innumerevoli regioni del mondo. Non solo, però. Nelle sue ricerche vocali ci sono litanie, cantilene, nenie, singhiozzi un po’ isterici, ma anche «fonemi meccanici e gorgheggi robotici», come scrive Piero Scaruffi, il maggior studioso di Monk.