La storia dello Stabat Mater di Pergolesi è particolare. Come, del resto, anche la vicenda del compositore, nato a Jesi nel 1710 e morto a soli 26 anni di tisi, poverissimo, a Napoli nel 1736. Ma la sua fama si estese subito in tutta Europa e anche nel Nuovo Mondo, al punto che si pubblicavano partiture di altri compositori con il suo nome perché vendevano di più. Lo Stabat Mater è anche una musica che, contrariamente a quanto è sempre accaduto a tutte le musiche, prima dell’Ottocento, non è mai uscita di repertorio. La serva padrona, poi, intermezzo dell’opera seria Il prigionier superbo, ebbe una tale fortuna da costituire il soggetto di una polemica storica, in Francia, tra i sostenitori della nuova musica italiana, leggera, divertente, orecchiabile, e la seriosità ingombrante, “noiosa”, a dire dei philosophes, della musica francese, di fatto un attacco a Rameau, capeggiato appunto dal filosofo, e musicista, ginevrino Rousseau. Al primato dell’armonia, sostenuto da Rameau, Rousseau contrapponeva la preminenza della melodia, che gli appariva evidente nella musica italiana. Di fatto lo Stabat Mater di Pergolesi è un capolavoro inimitabile, la cui fluidità melodica è costruita su elementi semplicissimi, l’appoggiatura, la scala discendente, l’imprevedibilità armonica e ritmica, ma non per questo scontati, anzi di una raffinatissima e calcolatissima organizzazione.Le due voci soliste, splendide, erano il soprano Maria Grazia Schiavo, la cui pasta sonora di sovrana bellezza e la delicatezza con cui la voce è piegata alla mutevolissima tavolozza espressiva pergolesiana destano ammirazione e commozione, e il mezzosoprano Sara Mingardo.

AL PUNTO che quando Johann Sebastian Bach ne tenta la parafrasi con la cantata Tilge, Höchster, meine Sünden (Salmo 51), BWV 1083, Cancella, Altissimo, i miei peccati, scrive una delle sue composizioni meno riuscite, perché appesantisce con il contrappunto delle voci interne una scrittura che deve la sua speciale bellezza proprio alla linearità e semplicità della linea melodica in cui si manifesta l’affetto, cioè il sentimento, espresso dai versi di Jacopone da Todi. È, certo, un trasferire al canto religioso, le dinamiche del canto teatrale. Ma sta qui la novità, la modernità della scrittura di Pergolesi, che affascinò e continua ad affascinare l’ascoltatore. Dunque ha fatto benissimo Michele Mariotti a riproporne l’ascolto in un concerto dell’Orchestra del Teatro dell’Opera di Roma. Le due voci soliste, splendide, erano il soprano Maria Grazia Schiavo, la cui pasta sonora di sovrana bellezza e la delicatezza con cui la voce è piegata alla mutevolissima tavolozza espressiva pergolesiana destano ammirazione e commozione, e il mezzosoprano Sara Mingardo, sempre raffinata nella sapienza dell’interpretazione. Successo immancabile del pubblico, il quale anzi si è lasciato trascinare ad applaudire, come non avrebbe dovuto, anche alla fine delle singole sezioni dell’opera che invece richiede un ascolto senza interruzioni fino all’amen finale.

NELLA SECONDA parte del concerto si è ascoltato il Pulcinella di Stravinskij. Inaugura la stagione cosiddetta neoclassica del compositore russo e si basa su musiche di Pergolesi o attribuite a Pergolesi, ma in realtà di altri. Un’altra faccia della perenne modernità del compositore marchigiano. Ma anche della multiforme esperienza musicale stravinskiana, simile in questo all’esperienza pittorica di Picasso: l’antico come faccia nascosta del moderno. Peccato che la scrittura difficile, insidiosa, di Stravinskij finisca per mettere in difficoltà l’orchestra, che non raggiunge qui la precisione, la nitidezza che si era ascoltata in Pergolesi. Ma il successo arriva, e giustamente, lo stesso. Le due voci maschili erano il tenore Cameron Becker e il basso Aléxandros Stavrakis, perfettamente adeguate. E si è riascoltato il soprano Maria Grazia Schiavo. Serata nell’insieme non solo gradevole, ma istruttiva, perché ha riconfermato la necessità che anche l’orchestra di un teatro d’opera debba confrontarsi con il repertorio sinfonico. Non può che aiutare la sua duttilità interpretativa.