«Non aspettatevi una musica consolatoria», dice. Non vogliamo essere consolati ma interessati sì, anche emozionati, perché no? Luca Francesconi, 66 anni, compositore. Dai tempi della sua direzione artistica della Biennale Musica (2008-2011) l’avevamo un po’ perso di vista. Molti e lunghi soggiorni all’estero per insegnamento (una parola che non gli piace: «presuppone uno che sta in alto e gli altri in basso») e concerti. Ora, per il festival 2022 di Nuova Consonanza, una settimana di workshop («trasmissione di esperienza») all’Auditorium romano e in conclusione due opere sue affidate al Pmce (Parco della Musica Contemporanea Ensemble) diretto da Tonino Battista. Il primo lavoro si intitola Trauma Études ed è molto recente (2018). «C’è un’ipertrofia segnica», afferma Francesconi all’inizio di serata, «ma traumi veri non ce ne sono più». Rumori, musiche, media che dettano quel che si deve sapere e pensare, ma possibilità di pensare e sentire autonomamente – quel che si può definire un campo dello spirito – sempre meno.

ECCO IL PUNTO. L’avvio è concitato. Pianoforte, violino, violoncello, clarinetto, flauto e due percussioni (una è marimba) alternano blocchi di suoni uniformi a note sgranate dei vari strumenti. Frasi brevissime di note fittissime, sembra che Francesconi voglia rispondere alla saturazione di segni con altrettanta saturazione di propri segni sonori.
Ma appaiono oasi di echi e flebili lamenti. Poi un «interludio» fatto di intrecci di figure minime ripetute, come un borbottare di una piccola comunità, un interloquire con disillusione, mirabile, certo, ma niente che faccia venire in mente un energico protestare né un vitale angosciarsi. Il «trauma» però arriva. L’episodio che segue è bellissimo. I blocchi di suoni in assieme sembrano proprio un segno divergente e le iterazioni (specie marimba e violino) sanno di battaglia. La conclusione è meditativa (interiorizzazione finalmente?), suoni ben distinti col clarinetto basso in evidenza procedono assorti. Il secondo lavoro si intitola Unexpected End of Formula ed è di dieci anni prima dell’altro.Ma appaiono oasi di echi e flebili lamenti. Poi un «interludio» fatto di intrecci di figure minime ripetute, come un borbottare di una piccola comunità, un interloquire con disillusione, mirabile, certo, ma niente che faccia venire in mente un energico protestare né un vitale angosciarsi.

Per violoncello solista, 12 musicisti ed elettronica. Si aggiungono alla compagine un secondo violino, viola, contrabbasso, oboe, fagotto, corno, tromba, trombone. Subito il brano è quello che si direbbe ultra-radicale. Spezzoni di frasi, gruppi di suoni troncati, glissando, tutti gli strumenti suonano assieme ma mai in unisono.

LA VIOLONCELLISTA solista Anna Armatys suona dentro l’ensemble non tra lei e l’ensemble, sono poche le parti in cui viene fatta emergere o dialogare. L’elettronica non è uno strumento in più con proprie parti ma piuttosto un’amplificazione, in particolare del violoncello in alcuni passaggi, che produce una sonorità aspra, traslucida, debitrice un po’, secondo Francesconi (ma ci permettiamo di dubitare), a quella techno.
La cocciutaggine anti-lirica del compositore è assoluta, ma è anche vero che il «trauma» non si avverte. O forse non si avvertono tocchi di singolarità.