Visioni

L’impurità dell’arte, una forma di riluttanza al controllo del presente

L’impurità dell’arte, una forma di riluttanza al controllo del presenteonia Gutiérrez, «Radical Women: Latin American Art, 1960–1985»; nella seconda foto, Marco Scotini

Intervista Marco Scotini parla di «Utopian Display», indagine sulle modalità espositive e lo «stato d’eccezione». Il libro si propone, attraverso gli interventi di quindici curatori internazionali, di decolonizzare la narrazione rispetto al punto di vista eurocentrico e patriarcale

Pubblicato più di 4 anni faEdizione del 9 maggio 2020

«Quello che appare come un’evidente contraddizione di fatto non lo è. Quando smetteremo di vedere il capitale come agente di libertà, circolazione, innovazione e svincolato dall’idea di stato centralizzato e autoritario sarà troppo tardi» dice Marco Scotini, autore di Utopian Display. Geopolitiche curatoriali (Quodlibet), e la realtà determinata dalla pandemia ne è l’ennesina declinazjone:la paura della malattia e del contagio vengono trasformati infatti nell’occasione per mettere in atto una strategia del controllo basata sulla divisione tra interno e esterno, fisico e digitale in una progressiva sparizione del corpo. Una logica che il sistema dell’arte contemporanea sembra riflettere, nonostante segnali opposti manifestati negli ultimi anni, assecondando le stesse gerarchie e concentrazioni di potere. E non si tratta soltanto di ciò che vediamo in questi mesi di virus, con la sequenza di tour virtuali, musei online e simili; nel volume Scotini, direttore del dipartimento di Arti Visive della Naba di Milano, indaga gli ultimi vent’anni attraverso le riflessioni di quindici teorici e curatori internazionali tra America Latina, Cina, Africa: un’analisi che va dagli studi sul genere – con il «museo travestito» ideato dal queer activist Giuseppe Campuzano a Lima di cui scrive il curatore e filosofo peruviano Miguel A.Lopez, – alle pratiche curatoriali che intendono decolonizzare la storia delle esposizioni per decostruirne i canoni egemonici normativi.

Il progetto «Utopian Display» che ti ha coinvolto per diversi anni, con sospensioni e recuperi alterni a partire dal 2003, torna adesso sotto forma di libro antologico, «Utopian Display. Geopolitiche curatoriali». La curatela è vista qui come una modalità della critica istituzionale con cui si intende rileggere il rapporto tra globalizzazione e quella che recentemente è stata definita de-globalizzazione.La situazione attuale ci ha riportato a un intransigente nazionalismo nel far fronte a un’epidemia che è invece globale.
La concezione di «guerra alla popolazione» con cui Lazzarato legge l’ultimo stadio del neoliberismo e della globalizzazione mi pare si adatti perfettamente a descrivere la pandemia di oggi. In sostanza, per il capitale ogni occasione diventa una risorsa preziosa per mettere a profitto un nuovo piano securitario e un’ennesima strategia di controllo (spietata e pacificata) sulla popolazione. Un piano che attraverso le ragioni della sicurezza avalla e riproduce nuovi razzismi, sessismi, differenze di classe, servilismi, colonialismi. Nel caso della pandemia che viviamo è gioco facile servirsi della casa, della regione, della nazione come barriere successive e garanti di immunità. Un concetto di immunizzazione securitaria che riafferma integralmente fantasmatici gap tra interno/esterno, identità/alterità, appartenenza/estraneità, esperti/profani, digitale/fisico. Ma non dobbiamo dimenticare che prima del «malato» c’è stato «il terrorista» e che lo stato d’eccezione entra nel diritto costituzionale senza mai essere revocato, così come le tecnologie per il controllo dell’iride e i body scanner sono ancora al loro posto negli aeroporti. L’esposizione e la vulnerabilità della popolazione a potenziale terrorista o malato («untore» direbbe Agamben) fa sì che per il capitale la libertà non sia solo impossibile, ma addirittura un incubo. Se da questo scenario ci spostiamo a quello dell’arte contemporanea le cose non cambiano. La crescita esponenziale a tutte le latitudini di musei e biennali, negli ultimi vent’anni, oppure il fatto che artisti e operatori culturali da geografie diverse siano diventati famosi, non deve farci perdere di vista che i rapporti di potere non sono mutati e che la struttura del sistema dell’arte è ancora totalmente concentrica e gerarchica. Questa asimmetria è al centro dell’indagine sulle geopolitiche curatoriali in Utopian Display.

I vari interventi del libro indagano il ruolo dell’arte contemporanea come global player, minandone però i canoni espositivi e le narrazioni consolidate. Puoi fornirci alcuni esempi?
Nessun dubbio che l’espansione dell’arte contemporanea abbia non solo accompagnato, ma promosso e legittimato culturalmente, la globalizzazione. Nessun dubbio che i musei e le istituzioni dell’arte siano diventate palestre neo-liberali (sul modello delle imprese), prive di asperità e contrasti e che, in quanto tali, abbiano rinunciato alla sperimentazione e al proprio futuro. Contro questo scenario attuale e l’eredità positivista del passato, quindici curatori internazionali cercano, in un arco di tempo che va dalla fine degli anni ’90 a oggi, di interrogare e decostruire modelli espositivi e canoni storiografici, recuperando memorie collettive represse e archivi ribelli, ridiscutendo ruoli culturali e funzioni istituzionali, nel tentativo di disarmarne il potere. Se penso al museo auto-espropriato di Anselm Franke, alla mostra sulla biblioteca dei libri interdetti di WHW o al Picasso in Palestina di Charles Esche, alle denunce di autoesotismo di Gerardo Mosquera e Tina Sherwell, è chiaro come l’impegno di tutti consista nel rintracciare riserve di potenzialità non ancora esaurite nella storia, mai definitivamente in essa compiute, ma sempre pronte a farsi antagoniste, attuali contro-modelli.

 


Nel libro s’indaga la possibilità di pensare l’arte fuori dal paradigma modernista che la connota come categoria culturale appartenente alla classe bianca, maschile, imperialista e borghese. Allo stesso modo si delinea una radicale problematizzare della scena geopolitica dell’arte contemporanea, con una particolare attenzione all’arte non occidentale e a tematiche di genere. Quanto l’exhibition making può mettere in discussione questo paradigma?
Se è vero che la decolonizzazione delle narrative e dei corpi è invocata in tutto il libro, è altrettanto vero che questa non potrà avere alcun effetto nel permanere dei presupposti delle politiche neoliberali attuali. Contro il punto di vista eurocentrico e patriarcale, il libro associa ricerche condotte sulle ex- colonie e sul genere: dall’India di Geeta Kapur all’America Latina di Mosqera, dalla denormalizzazione dell’iconografia dei corpi femminili in Andrea Giunta alla rievocazione queer del passato in Miguel A. Lopez. La geopolitica di cui si parla qui è quella della rivendicazione di un posizionamento partigiano e di un punto di vista parziale. Viene invocata la necessità di istituzioni durature, situate, con il recupero dei pubblici abbandonati contro quella sciagurata versione del curatore permanentemente itinerante e buono ad acquisire incarichi solo come fasi della propria carriera. Infine, rispetto alla negazione di qualsiasi rivendicazione universalista, l’esempio portato da Rasha Salti dell’esposizione internazionale d’arte di supporto politico alla Palestina, credo che sia un ottimo deterrente.

Rispetto a quello che stiamo vivendo in questi ultimi mesi, in cui a causa del confinamento sociale musei e gallerie hanno proposto una molteplicità di contenuti visivi e testuali per sostituire l’esperienza reale, pensi tali surrogati siano efficaci?
Il carattere peculiare delle mostre è di essere dei dispositivi effimeri: qualcosa di circoscritto nello spazio e nel tempo. Come dice Vasif Kortun, in uno dei saggi nel libro, le mostre «non possono essere prese da uno scaffale e sfogliate come un libro, né replicate come un film sullo schermo». C’è sempre, in queste, un residuo che mette in gioco l’hic et nunc del contatto. Ricordo ancora come, appena prima del crollo della Cortina di Ferro, Heiner Müller rivendicasse all’arte un carattere impuro, di errore, di ritardo, quale unica speranza. Perché l’uomo – diceva – è più sporco del computer. Eppure lo tsunami digitale che ci ha assalito in questi giorni, con tutta una sequenza infinita di at-home-museum, curatele instagram, guided tours virtuali a porte chiuse, online viewing rooms, pare credere nell’esatto contrario. È incredibile come il capitalismo contemporaneo faccia apparire come salvatore della società proprio ciò che più la insidia e la minaccia. E come quest’ultima, su un progetto d’irrecuperabile separazione politica (del corpo, del lavoro, del nostro essere insieme), fondi ormai la propria speranza.

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