Mentre si intravede un’uscita dalla crisi sanitaria, una delle preoccupazioni più diffusa tra le classi dirigenti in Italia nasce dalla domanda: «quando e come lo Stato rientrerà nei suoi più consueti confini?», ovvero, i confini affermatisi dopo lunghi decenni di liberismo e privatizzazioni… e ristagno economico. Una preoccupazione che non sembra nascere dall’emergere di immediati problemi reali, quanto da una preoccupazione di natura strettamente ideologica.

Il mondo attuale appare stretto tra le recenti scelte statunitensi (sostegno alla domanda, tassazione dell’impresa, intervento pubblico sui brevetti, ecc.) e le politiche di successo della mano visibile in Cina, mentre contestualmente cresce l’indebitamento pubblico e privato ad ogni latitudine.

In un’Europa sempre legata al paradigma neo liberista, Germania e Francia stanno utilizzando ogni mezzo necessario per difendere le loro posizioni produttive.

Se questo è il contesto, ipotizzare un repentino rientro dello Stato dall’economia italiana appare quantomeno ardito. La ripresa dovrebbe dunque essere affidata alla mano invisibile e agli investimenti privati?

Recentemente sono apparsi Rapporti di studio dell’impresa nostrana che non prefigurano un futuro semplice. Il Cerved conferma che il Covid ha avuto «effetti senza precedenti sul sistema delle imprese italiane, modificando le condizioni di domanda e offerta».

L’Associazione delle banche italiane (Abi) pur evidenziando come il tasso di deterioramento del credito per le imprese non finanziarie abbia raggiunto nel 2020 i livelli più bassi della serie storica post-crisi del 2008 (2,5%), ha sottolineato come esso tornerà a salire fino al 4,3% nel 2021. Un dato importante perché arriva a valle di un sostegno senza precedenti delle finanze pubbliche verso l’impresa.

Il Cerved conferma una tale dinamica, ma rendendola complessivamente più chiara. Ciò che resta in particolare sofferenza sono i comparti tipicamente produttivi. La loro inchiesta svolta su 640 mila società di capitali non finanziarie evidenzia come il loro indebitamento sia passato dal 2019 al 2020 da 846 miliardi di euro a 937 miliardi, con un incremento di oltre 90 miliardi (+10,7%).

L’incremento dei volumi di debito finanziario nelle società a maggior rischio di default è più che raddoppiato, passando da 63,2 (7,5%) a 135 miliardi di euro (14,4%). Il rischio aumenta trasversalmente in tutte le dimensioni di impresa, finendo per amplificare le distanze tra piccole e grandi, in quanto la quota di società a rischio va dal 20,5% nelle microimprese al 14,5% delle piccole, al 12,1% delle medie fino all’8,3% delle grandi.

Quest’ultime risultano le più solide, ma in termini assoluti anche quelle in cui si concentra la maggior parte di debito. Anche i divari territoriali sono aumentati con una maggiore incidenza nelle regioni del Centro-sud.

Si va da un indebitamento del 13,3% nelle imprese del Friuli al 26,2% per quelle in Sardegna. Di fronte a questo quadro, viene spesso individuata la ripartenza del Pil come fattore determinante per la tenuta del sistema produttivo e del sistema creditizio. Una ripartenza che non può essere circoscritta al rimbalzo del Pil del 2021, ma che dovrà aprire una nuova stagione negli anni a seguire, consolidando una crescita stabile in grado di superare la stagnazione di questi ultimi decenni.

Anche in questo caso le sorti del paese vengono legate al successo del Pnrr, cioè ad un ulteriore investimento effettuato con risorse pubbliche e debito.

Se questo è il quadro, però, la preoccupazione per quando lo Stato si ritrarrà dall’economia appare quantomeno fuori tiro, sarebbe più utile domandarsi come rendere efficiente e trasparente la sfera pubblica. Cioè come renderla utile a una ripartenza, magari con un baricentro spostato nella direzione di ridurre le differenze socioeconomiche e i danni all’ambiente.