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L’importanza dell’avere paura di non vivere

Verità nascoste La rubrica settimanale a cura di Sarantis Thanopulos

Pubblicato più di 6 anni faEdizione del 7 aprile 2018

La domanda più diffusa oggigiorno è la donazione di speranza. C’è molta paura in giro, più per il presente ormai che per il futuro, e la ricerca di soluzioni immediate che rassicurino, ha creato una vasta offerta di prodotti pronti all’uso.

La difficoltà di dare una forma adeguata alla paura -usarla per conoscere la realtà, piuttosto che rifuggirla- lascia molto spazio alla sua strumentalizzazione.

Il modo più semplice e efficace per costruire una paura strumentale è la creazione di uno spauracchio che sfrutta una diffidenza esistente o la induce.

La diffidenza scelta eccede le sue reali cause o è immotivata. Nel sceglierla già si tiene conto del suo potenziale di oscuramento dell’ansia a cui dà sfogo.

Il passo successivo è trasformare l’oggetto della diffidenza in un bersaglio, un avversario da eliminare.

Si ottengono in questo modo due vantaggi. Si dà una falsa forma definita a una paura reale ma informe, e la si contiene, risparmiando la fatica della sua elaborazione e gestione. Si converte una parte significativa di questa paura in sentimenti di odio e di rigetto, spostando il soggetto rigettante da una posizione passiva a una posizione apparentemente attiva.

Il contenimento falsificante della paura e la sua conversione in odio sono di natura consolatoria. La società purificata dai demoni, nel nome di cui agiscono, non ha nessun avvenire, se non catastrofico, ed è totalmente chiusa in un presente illusorio, avulso dalla realtà che si espande narcisisticamente, pretendendosi eternità, movimento senza futuro.

Questo presente, comune in tutte le consolazioni, fa incancrenire il tessuto vivo dell’esistenza. È il regno della passività che gli agitatori della paura vorrebbero cancellare.

La paura che sposta la provenienza dei pericoli a forze esterne il cui sviluppo non dipende da noi, è paura di vivere che ci deresponsabilizza. Ci porta alla ricerca di autorità protettive e rassicuranti o a atteggiamenti combattivi spavaldi, del tipo «Io non ho paura», che dissociati dalla comprensione del pericolo agiscono come anestetico, un modo assai irragionevole per fronteggiarlo.

È importante, invece, avere paura di ciò che minaccia la nostra voglia di vivere: questo sentimento ci informa dei nostri limiti e ci aiuta a prendere le misure della cosa temuta. Ci consente, inoltre, di comprendere meglio il valore delle cose per noi davvero importanti, quelle che non possiamo lasciare che si distruggano senza sentire uno svuotamento della nostra esistenza. Bisognerebbe sviluppare una sensibilità nei confronti della paura nel suo senso tragico (phobos), piuttosto che respingerla e regredire allo stato della dipendenza -sostituendo l’amore per la vita con il bisogno di stabilità e sicurezza- o inventarsi un avversario da combattere orgogliosamente -scegliere l’autoreferenzialità come destino.

La paura tragica esplica il suo effetto sconvolgente nel mondo psichico dello spettatore staccandosi dalla catastrofe per legarsi agli errori che l’hanno determinata. Non mette il soggetto al cospetto delle forze naturali o degli avversari che lo possono distruggere; lo fa tremare di fronte alle proprie azioni che hanno favorito l’effetto distruttivo (per negligenza, per ostinazione o per errata valutazione del proprio interesse).

Nel fare questo aborrisce la consolazione e si allea con la compassione: la sospensione del giudizio di cui è capace la passione del vivere, il non infierire sull’umana debolezza che le consente di ascoltare il dolore dell’amore e imparare da esso.

La speranza di oggi sta nella paura per la nostra mancanza di responsabilità che, capace di patire, non si fa condanna.

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