È uno dei temi d’inizio millennio: la secessione delle élites, perpetrata dalle élites economiche e politiche, congiunte tra loro da intime e pervasive complicità. Le prime usano la politica per ottenere trattamenti di favore, aggirando la libera concorrenza, le seconde per salvaguardare la propria condizione di privilegio. È un processo complesso, tormentato da divergenze tra chi considera la secessione una soluzione necessaria ai problemi di governabilità e chi dubita dell’opportunità di prendere le distanze dai comuni mortali, per ragioni di giustizia, o per calcoli di convenienza.

IL FENOMENO è tutto da studiare. Ma intanto un pregevole contributo l’offre Antonio Floridia, il quale, dietro le apparenze di una riflessione dedicata alle vicissitudini del Partito democratico (Pd. Un partito da rifare? Le ragioni di una crisi, Castelvecchi, pp. 240, euro 17,50), ha condotto un’indagine approfondita su un caso esemplare di secessione delle élites. Di cui tre sono gli ingredienti fondamentali.

Il primo è il patto di autodifesa tra i reduci di due illustri tradizioni politiche: quella comunista e quella democristiana. Questa seconda componente aveva alle sue spalle una drammatica sconfessione elettorale, da cui sono residuate le schegge di un ceto politico nient’affatto disposto a ritirarsi a vita privata. Una parte si è ritrovata nel Pd. L’altra componente ha un itinerario più complicato, perché non è stata sconfitta dagli elettori, ma si è sentita bocciata dalla storia, o dal collasso del Muro di Berlino. Dopo quasi mezzo secolo di conventio ad excludendum, una parte del ceto politico comunista ha pensato che un restyling radicale fosse la mossa più conveniente e si è messa in marcia verso il centro. Sta di fatto che le due componenti originarie sono rimaste divise e non ha rimediato il loro parziale rinnovamento, per ragioni anagrafiche. Confermando come il partito fosse frutto di un matrimonio di convenienza. Anzi: i nuovi venuti sono apparsi più accaniti nel rimarcare le loro diversità degli stessi soci fondatori.

IL SECONDO INGREDIENTE è l’offerta politica. Pensata per non scontentare nessuno. Per la componente ex-comunista l’urgenza era far dimenticare il proprio passato: niente tracce di comunismo, socialismo, classe operaia e classi popolari. Avrebbe dovuto avere meno complessi la componente ex-Dc, che si è invece liberata disinvoltamente del vigoroso interclassismo che aveva consentito dagli anni ’50 iniziative importanti quali il Piano Fanfani-Ina casa, l’istituzione dell’Eni e della Cassa per il Mezzogiorno e le Partecipazioni statali e altro ancora. Nell’ultima stagione, si sa, l’intervento pubblico era degenerato. Ma era forse riformabile, senza privare l’economia italiana di una colonna portante. Né postdemocristiano, né postcomunista (o postsocialdemocratico), il Pd è rimasto intrappolato in una scipita variante di Terza via, prona alle prescrizioni della Ue, ovvero dei paesi del nord Europa.

Il terzo ingrediente è il labirinto organizzativo. Architettato soprattutto dagli adepti del modello leaderista-plebiscitario contrapposto al modello proporzionalista-consociativo attribuito alla cosiddetta Prima Repubblica. Quando, a ben vedere, una dose di consociativismo è intrinseca ai regimi rappresentativi: solo se i partiti s’intendono e rispettano tra loro, e le maggioranze rinunciano a monopolizzare l’azione di governo, ma la condividono almeno in parte con le minoranze, tale regime ha qualche probabilità di resistere. Il labirinto organizzativo è stato invece congegnato in modo da privilegiare l’incoronazione del leader, da farne il padrone della linea politica (di fatto assediato dai ricatti correntizi), col modesto maquillage di qualche liturgia plebiscitaria, in cui entrano in gioco non solo gli iscritti, ma pure gli elettori: facili da manovrare dai media e forsanche dai partiti concorrenti.

Tracciato il suo documentato e impietoso ritratto, Floridia, s’interroga sui tentativi di aggiustamento. Non tutto il partito ha condiviso la secessione delle élites. C’è chi l’ha voluta e chi l’ha accettata non cogliendone le implicazioni, chi vi ha aderito sperando in un perfezionamento per strada. Dalla crisi della segreteria Veltroni in poi, il partito è stato tagliato in due tra chi la difendeva e chi provava a contrastarla. Tanto non ha impedito agli elettori di prendere la porta. In quattordici anni i 12 milioni di voti del 2008 si sono più che dimezzati. Sette volte è cambiato segretario, in maniera sempre convulsa. Ovvio concludere che il Pd è un partito sbagliato, come l’ha definito in un libro precedente lo stesso Floridia. Non un partito criminale, come ha ingenerosamente detto qualcuno, traendo spunto da alcuni episodi di malapolitica: ben più circoscritti di quelli verificatisi da altre parti dell’arco politico.

MA UN PARTITO con ogni probabilità irriformabile: il labirinto statutario non offre vie d’uscita e Enrico Letta non era l’uomo adatto per aprirne una di prepotenza. Floridia, cui capita d’essere un militante appassionato della sinistra, ci spera ancora e avanza qualche suggerimento. Ma la battaglia congressuale in corso è già incamminata lungo i binari consueti, mentre la base è troppo scoraggiata per autoconvocarsi. Non illudiamoci. Il tempo in cui le zucche si trasformavano in carrozze si è tristemente esaurito.