L’Empire, L’impero, è il peplum di campagna – anzi su bordo mare visto che siamo in un villaggio di pescatori – sulla Costa d’Opale dove Bruno Dumont mette in scena la sua nuova «sperimentazione» (con 7 milioni di budget) in cui tutto (e il suo contrario) è permesso. Una sorta di epica cosmica che ammicca a contenuti profondi – la lotta fra Bene e Male, il potere temporale e la chiesa – rivendicando una lettura autoriale e nelle sue intenzioni dissacratoria del genere fantascientifico di saghe e guerre galattiche (alla Star Wars, Dune e simili). I suoi supporter sono andati in visibilio alla visione alla Berlinale (era in concorso, Orso d’argento) e del resto Dumont dai suoi primissimi film è stato coccolato da una parte della critica nostrana – Ghezzi per esempio lo adorava. Qui però, e come da parecchio tempo ormai, ha perso anche quella pretesa di «teatro della crudeltà» delle origini seppure declinato in senso radicalmente antiartaudiano, nel segno cioè di un autoritarismo cinico e compiaciuto sempre contro i personaggi, mortificati e sfigurati – questo assai più fastidioso dell’Origine du monde in variazione stupro che apriva il suo allora contestato L’humanité (1999).

L’Empire – che ha avuto i rifiuti di Lily Depp e di Adèle Haenel, quest’ultima per la sceneggiatura «sessista e razzista» – nelle molte cose che convoca non risparmia l’ironia sul woke, specie nei due personaggi femminili che nonostante attrici notevoli quali Anamaria Vartolomei – in versione Lara Croft di provincia – e Lyna Khoudri inchiodata dalla parodia dell’accento (andrà perduto nel doppiaggio) non trovano mai una rappresentazione. Non che gli altri l’abbiano di più visto che i personaggi sono dei segni su cui proiettare questo suo uso-riuso-patchwork-ridicolizzato di un immaginario da cui è distante e indifferente e soprattutto del quale mai centra proprio la sua decostruzione. Poi che sul femminile Dumont non abbia capacità di sguardo è ancora un’altra questione.

ECCOCI dunque fra sabbia, barche da pesca e trattori, fattorie e bunker post-bellici dove si affrontano appunto il Bene e il Male. Due imperi stanno progettando di invadere la Terra, gli Zero contro gli Uno, mentre dal villaggio si passa a Versailles e alla Sainte-Chapelle, a cattedrali, Bach e palazzi intergalattici nei quali un crudelissimo Luchini completamente grottesco perché fuori parte filosofeggia sull’umano e Camille Cottin propone un alias demenziale di sé. Lo spirito del male si cela in un bambino dagli occhi blu la cui madre viene decapitata in un incidente all’inizio. Lo vogliono tutti, perché sanno chi è, a difenderlo è un giovane pescatore discepolo del Diavolo (Brandon Vlieghe) che vive con l’anziana madre. Gli alieni si reincarnano nelle figure umani e lì, in queste sembianze e corpi a loro volta «alieni» all’improvviso perdono le loro certezze scoprendo il sesso e l’attrazione che li spiazza da ciò per cui sono programmati, e muta i rapporti fra gli stessi nemici. I luoghi sono gli stessi – più o meno – di P’tit Quinquin del quale ritroviamo anche alcune presenze (Van der Weyden e Carpentieri), nelle autocitazioni che tengono insieme il resto. Se la parodia seriale-fantascientifica poteva essere un punto di partenza a suo modo affascinante il problema è che la materia prescelta non ha nulla a che fare col regista, e invece per giocare e ancora di più per demitizzare, per avventurarsi in territori che si vogliono mutare ci vuole un po’ di passione o almeno un qualche interesse che quando mancano risuona solo il vuoto. Non c’è nemmeno il paesaggio nonostante la bellezza a parlare in questo «giocattolo» che ha molte note fasulle e che i presunti riferimenti filosofici-teologici fanno stonare ancor di più perché appaiono essi stessi un pretesto. Un ammiccamento per inchiodare lo spettatore e metterlo all’angolo fra significati altissimi sulla condizione umana. Ma c’è davvero qualcosa da capire?