Alias Domenica

L’immunodeficienza di Trump

L’immunodeficienza di TrumpHugh Steers, «Bath Curtain», 1992

Al Museum of the City, "AIDS at Home: Art and Everyday Activism" Una mostra militante sull’Hiv (da Nam Goldin a Act up) si ribalta contro la distruzione delle politiche assistenziali

Pubblicato circa 7 anni faEdizione del 24 settembre 2017

C’è aria da barricate culturali, nei musei newyorkesi. Quasi una sirena spiegata a richiamo per contestatori, agit prop, manifestanti e resistenti, come a dire che dopo la strada si può continuare l’azione di dissenso nelle sale high-tech del Lenfest Center for the Arts di Columbia, lungo l’affaccio sull’Hudson a ovest di Harlem, o in quelle luminose del giovane Whitney Museum svettante sul Meatpacking District, entrambi disegni di Renzo Piano al centro della strategia destinata a riconfigurare la mappa urbana dell’isola fra prospettive futuribili e inarrestabile gentrificazione.
Anche le gallerie private fra l’8 e la 10 Avenue, nel blocco compatto che unisce le strade attorno alla ventesima, si accodano frequenti allo stesso trend: e così il panorama espositivo offre uno spaccato notevole della situazione politica e sociale.
È ovvio. Esperienze come la mostra An incomplete History of Protest 1940-2017, al Whitney, presentano una selezione che trascende, in termini di progettazione e scadenze, le recenti elezioni statunitensi, il cui risultato si è avuto solo nel novembre del 2016: proprio quest’iniziativa dimostra però quanto l’humus ribollente dai giorni del movimento Occupy Wall Street abbia fronteggiato un inatteso cortocircuito storico per il quale strategie d’azione, intendimenti ideologici delineati all’inizio del decennio si sono visti riattualizzati da una più definita fisionomia d’oppositore messa a disposizione dalla nomina di Donald Trump.
Un’aria dell’epoca, condensatasi a Zuccotti Park lungo tutto il 2011-2012 con echi profondi in Europa, ha infatti riconosciuto nel volto del miliardario – quasi per un assurdo contrappasso – le fattezze arcigne di un capitalismo rampante; non solo: sulle legittime rivendicazioni contro lo sbilanciamento economico dettato dalla finanza internazionale si sono imposte proteste altrettanto urgenti, relative alla legiferazione del Presidente sul fronte razziale, della sessualità, dell’eguaglianza.
È questo il «momento» del programma Black Lives Matter, la cui azione si è di nuovo infiammata per i casi nerissimi di Charlottesville e per l’indignato dibattito sulla rete del White Supremacism (Ku Klux Klan e altre etichette); è il mandato del ripristino del «no» ai transgender nelle forze armate, contro una decisione presa dalla maggioranza democratica nel luglio del 2016, degli assalti all’Obamacare e all’acceso al sistema sanitario; è questa la dirigenza che nel giugno scorso ha visto allontanarsi sei personalità di peso dal PACHA (Presidential Advisory Council on HIV/AIDS), un comitato fondato durante la reggenza Clinton, indignate per la negligenza di Trump a proposito delle politiche assistenziali.
Di fronte a questo non stupisce che una delle mostre convincenti ora in calendario – per rigore scientifico, intelligenza delle opzioni curatoriali e per l’empatica consistenza sentimentale alimentata dalle opere riunite nelle quattro sale del Museum of the City of New York sotto al manifesto AIDS at Home: Art and Everyday Activism (fino al 22 ottobre) – riguardi proprio le strategie messe a punto dalla comunità dei malati, dei familiari e dei volontari per gestire nella metropoli il diffondersi della sindrome da immunodeficienza acquisita, dalla sua identificazione nel 1981 fino agli anni novanta. Ha commentato Ronay Menschel, la direttrice della vivace istituzione aperta lungo il Museum Mile: «New York ha sempre dimostrato resilienza rispetto alle avversità e quest’esposizione vuole definire una simile caratteristica configurandola in termini profondamente personali».
Uno dei pregi dell’evento, ideato da un giovane studioso quale Stephen Vider (autore di un libro in uscita dal nome eloquente, Gay Men, Lesbians, and the Politics of Home After World War II), è infatti la capacità di spiazzare di fronte alle nozioni di «pubblico» e «privato»: nelle interviste di chiusura, appositamente registrate interrogando performers e attivisti come Kia LaBeija o Ted Kerr, si sottolinea ad esempio quanto la scoperta di trattamenti antiretrovirali, conducendo i pazienti dalle proprie residenze alle strutture ospedaliere, abbia ad un tempo sottratto i portatori del virus a una risposta collettiva all’epidemia, consegnandoli alla riservatezza (segretezza?) di un legame con il dottore. Potrebbe apparire paradossale: ma – oltre a dover essere concepita nel sistema sanitario statunitense – essa è illustrata lungo l’iter espositivo da un’attenta disamina delle pratiche collettive, che (naturalmente) non intende contestare l’odierno miglioramento della qualità di vita dei malati.
Privato è insomma pubblico: e per dimostrarlo Vider ha voluto associare opere realizzate da nomi di spicco di quella decade, erede del grande fermento del Lower East Side fra i Settanta e gli Ottanta (Nan Goldin, Peter Hujar, Mark Morrisroe, David Wojnarowicz), a documentari e ephemera della stagione che inanellò le attività di gruppi come Act up o Gran Fury – rivolti a smuovere il senso comune attraverso azioni spettacolari e interventi artistici – ma anche associazioni di volontariato fra cui Gay Men’s Health Crisis, Housing Works o God’s Love We Deliver, rivolte invece al sostegno medico, all’emergenza abitativa e alle necessità alimentari dei malati.
Le pareti di ciascuna sezione (Caretaking, Housing and Homelessness, Family, HIV/AIDS at Home Today) ospitano pertanto filmati, collage, disegni, sculture di dimensioni ridotte, volantini d’epoca e depliants informativi creati in quegli anni; materiali che si dispongono sulle efficaci carte da parati richieste per l’occasione ad artisti da sempre interessati agli universi visivi legati all’epidemia (un nome per tutti, Avram Finkelstein, fra i creatori del celebre logo «Silence=Death», accompagnato dal triangolo rosa), con l’intento di ricreare un sentimento di intimità casalinga: e del resto, ogni pezzo proposto rimanda a media «domestici», familiari o pop (il ricamo, l’uncinetto, lo schizzo a matita, il fumetto, la polaroid, il ciclostile), evocando una sfera quotidiana e non per questo meno engagée. Così, perfino le prove dei nomi più celebri, ormai musealizzati, assumono – per mezzo di una sapiente selezione – luce piena: è il caso dei tre scatti di Goldin (Amalia and Amanda, Amalia’s Dresser, Curtain in Amalia’s Room), parte della serie eseguita nel 1994-’05 coi degenti del Cabrini Hospice, saturi di tenera umanità.
Tale effetto è ottenuto associando a simili lavori le urgenze di quel tempo, le voci dei testimoni in un dialogo sussurrato: in quest’ottica è calzante la scelta di far scorrere estratti del video di Alain Klarer dedicato nel 1988 a Bailey House, il primo alloggio pubblico inaugurato su Cristopher Street per malati di HIV rimasti senza una residenza fissa. In quelle immagini si sperimenta soprattutto un’inesauribile sete di vita (recita il sottotitolo: To Live as long as You can); ed è questo uno dei messaggi duraturi di un progetto che nella sua «coda» non dimentica di aprire esplicitamente all’oggi dell’attivismo e delle culture dell’AIDS. Vider rende quindi odierna una storia che – a trent’anni di distanza – rischia di scolorire nella coscienza collettiva, mentre le terapie silenziano l’emergenza epidemica; e assieme si differenzia da operazioni commerciali come quella condotta in queste settimane dalla galleria Clampart su 247 West e ventinovesima (Screaming in the Streets. AIDS, Art, Activism), in cui la vendita di opere e documenti, analoghi a quelli presentati da AIDS at Home, serve al pubblico la straniante impressione di trasformare la memoria in colorati, tragici souvenirs.

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