L’immobilismo molisano è tra noi
Un celebre falso del Male Noto per l'epigrafe: «Perché stare fermi quando si può essere immobili»?
Un celebre falso del Male Noto per l'epigrafe: «Perché stare fermi quando si può essere immobili»?
La «riscoperta» dell’«Immobilismo Molisano» avvenne sulle pagine de Il Male nell’ottobre del 1978. L’«Immobilismo», come fu poi chiamato più semplicemente tra gli adepti, si inseriva a suo modo in quella schiera di «falsi» più eclatanti e popolari che Il Male aveva cominciato a collezionare dai suoi primi numeri. Una foto «d’epoca» ritrae, nello scenario autunnale del giardino all’italiana di Villa Sciarra, la redazione quasi al completo immortalata nei panni di quegli artisti fioriti nella Campobasso di inizio secolo.
Come fondatore del movimento, mi identificavo in quel Giuseppe Salsicci, «poeta della pagina bianca», definito da uno dei suoi biografi «un accanito cancellatore, che per trent’anni, pazientemente o furiosamente, cancellò quasi tutto ciò che andava scrivendo». L’anonimo redattore de Il Male aggiungeva che «questa straordinaria mole di cancellature ha dato del filo da torcere a quei critici che si sono avventurati nello spazio enigmatico del Salsicci cancellatore: troppo poco è stato finora riportato alla luce da quel labirinto di freghi neri che riempiono i suoi duecentoventi quaderni manoscritti».
Tra i Padri dell’Immobilismo in quel Molise così inaspettatamente cosmopolita troviamo inoltre: il dottor Ellezer Aschw (Jiga Melik) , definito nella didascalia «farmacista criminale», il pittore Oliviero Anatrini (Roberto Perini), l’ineffabile Aleardo Solari, bollato come «gaudente e minchione» (Piero Lo Sardo), il cantante muto Rauco Rauchi (Vincino), e tanti altri artisti, che, fatta eccezione per Egisto Baracazzi, decoratore di scodelle (Iacopo Fo), non c’è il tempo di nominare. Se c’è una frase che andrebbe posta come epigrafe a una «Storia dell’Immobilismo Molisano» ancora da scrivere è quel «Perchè star fermi quando si può essere immobili?», che Giuseppe Salsicci pronunciò in punto di morte. Ma non va dimenticato l’urlo di Anatrini nell’atto di ricevere la cartolina-precetto, urlo che si contrappone alla contemporanea, e fatale, euforia del futurista Boccioni nei confronti della Grande Guerra appena iniziata.
E’ chiaro che gli Immobilisti si contrapponevano ai Futuristi; ma quale dei due movimenti sia nato per primo è ancora argomento di disputa. C’è da precisare però che nella «scuola di Campobasso» era assente qualsiasi atteggiamento «passatista»: Salsicci e i suoi erano coscienti di rappresentare quel carattere italiano profondamente «immobilista», che è la chiave per interpretare gran parte della nostra storia, fino ad oggi. Si può dire che si sentissero a loro modo, e forse non senza ragione, più futuristi dei futuristi stessi.
Ma torniamo a Il Male. Dopo quel numero dell’ottobre ’78, una parte dei nostri lettori si affezionò al «Movimento Immobilista»: ci furono scambi di lettere e di insulti, progetti arditi, qualche esaltato credette sul serio all’esistenza del Movimento, fece ricerche negli archivi di Campobasso, e forse ci scappò qualche tesi di laurea. Jiga Melik ed io organizzammo sul serio una «Mostra dell’Immobilismo» al teatro «Beat 72» di Roma: furono esposti dipinti di Anatrini, si ascoltarono vecchi dischi di Rauchi, il pubblico (più di mille persone) toccò con mano i pantaloni di fustagno di Aleardi e la biancheria di Mitzi, la prima ballerina del teatro di Termoli. L’happening fu concluso da un concerto di
Bobby Solo, anche lui per suo conto immobilista nell’evocazione del fantasma di Elvis Presley.
Fummo a un passo dal far entrare l’Immobilismo nei musei. L’amica Ida Panicelli, allora tra i responsabili della Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, entusiasta del nostro movimento, mi propose una «mostra completa» dell’Immobilismo Molisano di lì a qualche mese, nella Galleria. Per qualche tempo accarezzammo l’idea di inverare il nostro falso fin nei cataloghi delle mostre e nel dibattito tra i critici d’arte. Ma la sana tendenza alla fuga che spirava tra noi ci spinse di nuovo nell’avventura di quella specie di «Ufo» settimanale, che, per nostra fortuna, e dei nostri lettori, ebbe ancora un altro paio d’anni di vita. Ma l’Immobilismo è ancora lì, vivo e vegeto, in attesa che qualcuno si prenda la briga di rispolverarlo.
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