Al pittore Claude-Joseph Vernet (1714-1789) fu commissionato dalla Corona di Francia di raffigurare in ventiquattro dipinti i principali porti commerciali e militari del regno. Ne realizzò quindici, oggi conservati al Louvre ed al Museo della Marina, a Parigi. A partire dagli anni Sessanta le marine di Vernet perderanno il loro carattere documentario. Non più la ‘veduta’, insomma. Il ‘fantastico’, piuttosto. Infatti sarà intento di Vernet rappresentare i sentimenti che l’immensità e la potenza del mare suscitano nell’animo umano: un senso di fragilità e di fatale vulnerabilità, che induce al pensiero della propria morte. Il pittore elabora, del mare, una rappresentazione visionaria che pare giusto ricondurre alla ‘figurazione’ biblica fissata in Genesi con le parole «la terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque».

In Salon de 1765 Denis Diderot descrivendo le grandi tele di Vernet scriveva: «Il mare ruggisce, i venti sibilano, il tuono romba; il bagliore pallido e tetro dei lampi trapassa le nubi, mostra e cela la scena. Si sente il rumore dei fianchi della nave che si spezzano; gli alberi sono piegati, le vele strappate: alcuni, sul ponte, levano le braccia al cielo, altri si lanciano in acqua». Sono infatti le scene di naufragio che si susseguono nei quadri di Vernet a ribadire un ‘soggetto’ destinato ad una fortuna che cresce da allora, e segna un vasto ambito della pittura, della poesia e della narrativa dell’Ottocento in Europa. I naufraghi, continua Diderot, «sono trascinati dalle onde sugli scogli vicini, e il loro sangue si mescola al bianco della schiuma. Li vedo galleggiare, sono sul punto di scomparire negli abissi; li vedo cercare disperatamente di raggiungere la riva, contro cui andranno a fracassarsi. La stessa varietà di caratteri, azioni ed espressioni si rispecchia negli spettatori: alcuni rabbrividiscono e distolgono lo sguardo; altri prestano aiuto; altri ancora, immobili, stanno a guardare».

La riflessione filosofica si dedica al tema di Vernet almeno a far data dal 1757 allorché Edmund Burke dà alle stampe la sua Inchiesta sul bello e il sublime. La traduzione francese approntata da Boileau nel 1764 de Il sublime, l’antico testo anonimo risalente al primo secolo avanti Cristo, segna una data nella ricerca estetica in Europa. Ma restiamo al tema della furia del mare e del naufragio che designano l’opera di Vernet avvalendoci d’una messa a punto di Immanuel Kant nella Critica del giudizio (1790): «Ripide rocce strapiombanti e come gravide di minaccia, nuvole temporalesche ammassatesi e avanzanti in cielo fra lampi e tuoni, vulcani al colmo della loro furia distruttrice, uragani che lasciano la devastazione dietro di sé, l’immenso oceano infuriato, la cascata di un grande fiume, e simili, riducono a una piccolezza insignificante il nostro potere di resistenza, paragonato con la loro potenza».

Ad illustrare questo brano di Kant bene si offre un dipinto del 1819 di Johan Christian Clausen Dahl (1788-1857) Il giorno dopo una notte di tempesta, alla Neue Pinakothek di Monaco. I frantumi di una imbarcazione galleggiano, ora qua ora là, portati dai marosi che ricevono più intensa forza nel loro ripetuto sbattersi contro un gruppo di scogli che affiorano poco distanti dalla riva. I malva e i grigi cupi delle onde si confondono con la nuvolaglia bassa che la luce del mattino non ha ancor diradato da quella parte dell’orizzonte, mentre incede e si propaga, sulla riva, illuminando i maestosi contrafforti della scogliera. Non scorgi tra le rupi a mare contro le quali si frangono le onde i corpi degli infelici che sono stati travolti dalla tempesta notturna. Quando i flutti che ora infieriscono e spumeggiano perderanno la loro forza, allora, forse, sarà possibile un recupero.

In questa solitudine, al primo albeggiare, è seduto in faccia al mare un giovane uomo. Poggia i gomiti sulle ginocchia e tiene tra le mani la testa china. Non guarda, ha già visto e sa. Il suo piccolo terrier gli sta di fronte. Abbaia per scuoterlo e infondergli vigore. Quell’abbaiare noi non udiamo, sovrastato dai tonfi della poderosa risacca che si avventa contro la pietraia.