«L’imitazione degli adolescenti, in balia di una società che non li soccorre»
Intervista Parla la psicoterapeuta Maria Chiara Risoldi, autrice del romanzo «Di lotta e di cura» appena pubblicato. «Genitori che non sanno essere adulti, competitività, catastrofismo mediatico e la difficoltà dei giovani a riconoscersi in una comunità d’elezione sono segni di malessere sociale»|
Intervista Parla la psicoterapeuta Maria Chiara Risoldi, autrice del romanzo «Di lotta e di cura» appena pubblicato. «Genitori che non sanno essere adulti, competitività, catastrofismo mediatico e la difficoltà dei giovani a riconoscersi in una comunità d’elezione sono segni di malessere sociale»|
«La società pecca di omissione di soccorso nei confronti degli adolescenti». Cita il giudice Gian Paolo Meucci, illuminato presidente del tribunale dei minori di Firenze dei primi anni del secolo scorso, Maria Chiara Risoldi, per tentare un’analisi profonda del disagio giovanile di oggi, prendendo spunto dal caso di cronaca di Abbiategrasso. Giornalista e a lungo psicoterapeuta, la settantenne Risoldi dal 2020 ha interrotto la professione per dedicarsi alla cura di suo marito malato, Antonio Laforgia, ex presidente della Regione Emilia Romagna morto due anni fa scegliendo la sedazione profonda. Da allora si è dedicata alla scrittura, dando alle stampe due mesi fa Di Lotta e di cura (Iacobelli editore), romanzo che intreccia la storia della Casa delle Donne di Bologna di cui l’autrice è stata tra le fondatrici 30 anni fa. Cammina leggera è invece il suo romanzo d’esordio per i tipi di Manni, ispirato al proprio percorso personale che intreccia psicoterapia e liberazione dalle costrizioni sociali.
La scuola in generale non riesce a farsi carico dei problemi psicologici degli studenti. Cosa manca?
È un problema che viene da lontano: anche quando nel 1967 andavo alle superiori, la scuola non era in grado di trattare i problemi dei giovani e tanto meno di aiutare le famiglie a farlo. Però un giudice bravissimo come Gian Paolo Meucci che, come molti nel suo ruolo, aveva una profonda formazione psicologica nell’approccio con i giovani, diceva che la società pecca di omissione di soccorso nei confronti degli adolescenti. Cosa vuol dire? Esistono servizi materni e infantili più o meno efficienti; dopo la riforma Basaglia abbiamo servizi per i grandi, anche questi più o meno funzionanti. Ma c’è un buco sugli adolescenti: non ci sono servizi pensati per loro. In Italia, poi, e solo noi, abbiamo anche una scuola assurda: le primarie e le medie inferiori non rispettano la biologia e la psicologia dell’età evolutiva. Ci vorrebbe una scuola primaria di sette o otto anni, e poi l’avvio di un altro iter scolastico. In sostanza, siamo incompetenti nella psicologia e nella pedagogia.
In ogni caso, mancano sportelli psicologici per gli studenti.
Non direi: nelle scuole, con molta approssimazione, lo sportello psicologico sarebbe stato già inserito. Quando andavo all’università c’era già. Lo psicologo però sarebbe obbligato ad avvisare i genitori, quando un minore chiede il suo aiuto. Nelle scuole medie può non farlo, ma nei casi gravi deve chiedere l’autorizzazione al magistrato perché in generale il minore può essere trattato da uno psicologo solo se entrambi i genitori firmano il consenso. Attualmente, non conosco nei dettagli la situazione delle suole italiane ma non credo che il problema sia lo psicologo nelle scuole, perché non possiamo psicologizzare tutto. Il problema è che la cultura politica è ancora ferma lì dove la fotografò il giudice Meucci: non ci sono adulti. Dove per adulti si intende persone che abbiano elaborato la propria storia, che abbiano consapevolezza di sé, che riescano a differenziarsi dai giovani, nella cultura e nei gusti, e che non diano perciò l’impressione di essere in competizione con loro. È così già da qualche tempo: i genitori di noi baby boomer erano diversi da noi, avevano i loro valori, le loro canzoni, i loro gusti, i loro vestiti. Dai quali noi volevamo differenziarci e porci in contrapposizione.
Dove metterebbe la data del cambiamento?
Una volta Massimo Ammaniti disse che nel ’68 abbiamo abbattuto tutto, le strutture, i limiti e le regole, senza però proporne altre. E abbiamo fatto così sparire le differenze generazionali.
Che ruolo ha avuto il ventennio berlusconiano, nel quale abbiamo assistito ad un ribaltamento dei modelli di riferimento (citando Walter Siti, non più il proletariato che imita i gusti della borghesia, tipico dell’epoca di Pasolini, ma il contrario: il centro che imita la periferia)?
Il ventennio berlusconiano in qualche modo ha interpretato bene qualcosa che negli Stati uniti era già realtà da qualche anno: la cosiddetta società narcisistica, ossia la politica spettacolo, il leader carismatico ecc. Berlusconi in maniera clamorosa ha rimesso in scena il corpo femminile come oggetto, cosa che da allora anche le donne cominciano a usare per ottenere un pezzetto di potere. Eppure, anche in uno scenario sociale così profondamente mutato nessuno si occupa degli adolescenti. L’«omissione di soccorso» diventa sempre più grave, perché questi finti adulti non sono cresciuti malgrado siano diventati genitori.
Torniamo al fatto di cronaca, che inevitabilmente evoca le stragi americane nelle scuole. Posto che da un caso singolo non si possa trarre un vero spaccato sociale, secondo lei che ruolo ha giocato la pandemia negli adolescenti, in particolare riguardo la difficoltà di trovare una comunità d’elezione, così tanto mortificata dalle regole del lockdown rispetto alla famiglia d’origine?
Attenzione a non fare della pandemia un alibi per non vedere la continuità dei problemi. La gestione della pandemia andrà studiata a fondo, perché essa ha portato al pettine alcuni nodi: i congiunti chi sono?, per esempio. Ma ci porta fuori strada, dare troppo valore a quei lockdown. Il ragazzo che esplode nel modo in cui abbiamo visto ad Abbiategrasso, lo fa anche a nome di altri. Il suo malessere in qualche modo rappresenta una malattia comune a molti. Che si fonda sulla paura del futuro. Da quanti anni leggiamo sui giornali le catastrofi che ci aspettano? C’è molta differenza con le generazioni che leggevano sui giornali il progresso possibile. Ci sono ventenni cresciuti leggendo che siamo vicino alla fine, per gli umani sul pianeta. E allora, abbandonati a se stessi, con nessuna speranza nel futuro, basta un brutto voto o una delusione d’amore per esplodere.
Cosa si potrebbe fare per intercettare e curare questo malessere?
Bisognerebbe che la politica, a livello quanto meno europeo, cominciasse a occuparsi della fatica del vivere. Senza certezze, misurandosi con una società delle performance, con genitori che competono con i propri figli, vivere oggi è faticosissimo. Soprattutto per un adolescente. In particolare, la politica dovrebbe studiare le neuroscienze, che nel frattempo hanno fatto passi da gigante e scoperte importantissime. Il neouroscienziato David Eagleman, sulla base di queste scoperte, sta portando avanti negli Usa una battaglia giuridica affinché venga riconosciuta la causa neurologica di molti raptus violenti dei giovani nelle scuole. Noi funzioniamo per imitazioni: se ricevo una gentilezza il circuito imitativo umano tende a riprodurre quel gesto. Se vediamo violenza, la imitiamo. In sostanza, il catastrofismo dei mezzi di comunicazione, attenti solo ad attrarre l’attenzione dei lettori, la cultura emergenzialista che ha contaminato anche la sinistra, e la violenza verbale dei nostri politici sono parte di questo malessere. Ricordiamocelo.
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