Visioni

Latella, l’illusione del presepe

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Intervista Antonio Larella racconta il suo rapporto con Eduardo. "Mettere in scena Natale in casa Cupiello significava per me anche interrogarmi sul senso del fare teatro oggi"

Pubblicato quasi 10 anni faEdizione del 31 dicembre 2014

Il suo Natale in casa Cupiello ha provocato un piccolo terremoto – prodotto dal Teatro di Roma lo si può vedere all’Argentina ancora stasera e domani, un bel modo per finire/iniziare l’anno. C’è chi lo adora e chi si è scandalizzato, ma è quasi una cifra del teatro di Antonio Latella che per lucidità, inventiva, dissacrazione non può lasciare indifferenti (lo ha recensito su queste pagine Gianfranco Capitta, ndr). Certo la commedia, scritta da Eduardo a più riprese negli anni Trenta, è uno dei cosiddetti «testi sacri» della cultura italiana intorno al quale nel tempo si è creata una iconografia, e anche una certa abitudine della visione. Il Natale di Latella lascia invece alle spalle, e radicalmente, l’immagine delle due camere&cucina in cui è stata chiusa la famiglia napoletana, per dare vita al testo, alle parole, agli accenti persino per cercarne lì gli elementi di rottura, la crudeltà. E liberando l’opera di Eduardo dai canoni devitalizzati della «tradizione» ne restituisce il sentimento contemporaneo.

Antonio Latella ci risponde dalla sua casa di Berlino dove ormai vive da diversi anni. Tra poco inizierà le prove di un nuovo spettacolo ispirato Veronika Voss il film di Fassbinder – debutto a Modena in primavera, titolo Ti regalo la mia morte, Veronika. «Ma il film è talmente perfetto che sarà difficile metterlo da parte».

 

«Natale in casa Cupiello» è un’opera che al di là della scena teatrale ha creato nel tempo un paesaggio umano divenuto parte dell’immaginario italiano. Ed è anche una delle più legate a Eduardo. Da cosa sei partito per avvicinarlo?

Una delle questioni fondamentali riguardava proprio il rispetto dei maestri. Che per me si è tradotto subito in una domanda: se loro hanno fatto tanto bene delle cose perché rifarle peggio? Preso atto di ciò ho cominciato a eliminare il realismo, non mi interessava mettere in scena una tragedia borghese ma arrivare all’essenza della tragedia stessa, a quel suo snodo che interessa tutti. E questo sempre con grande rispetto per il suo autore.
Lo spettacolo mette al centro il testo, le parole, e persino gli accenti divengono gesti mentre gli attori sembrano guardare dall’esterno il proprio personaggio, e al tempo stesso esserne intimamente parte…
Penso che un testo sia più grande di noi. Alcune volte la psicologia è talmente soggettiva, o legata a un certo attore da essere meno interessante. Il testo invece sopravviverà sempre, l’interpretazione no. Certo, si ricordano delle grandi interpretazioni di Amleto ma è anche vero che spesso la psicologia riduce lo spessore del testo. Per questo mi interessava avvicinarmi più alla letteratura specie poi rispetto a un testo come Natale in casa Cupiello così legato a Eduardo interprete e autore.

In questo lavoro di sottrazione viene fuori con forza la violenza della storia.

Perché la cattiveria è liberata dai fronzoli, da quel «vogliamoci bene» che troppe volte l’ha soffocata. Natale in casa Cupiello è stato scritto da Eduardo in tre momenti diversi della sua vita, e questo offre la possibilità di utilizzare anche linguaggi diversi. Il grottesco, il melodrammatico, e il teatro musicale che nell’ultima parte ddello spettacolo iviene un grande requiem, una messa funebre

Ecco, l’ultimo atto nel tuo «Natale» arriva spiazzante. Un nero cupo, come un Velasquez, in cui gli stessi Cupiello sono diventati il presepe.

Il primo atto nasce dall’unione di due atti unici, il primo e il secondo, il cui inizio è rappresentato dalla stella cometa che si alza. Il terzo è stato scritto da Eduardo qualche anno dopo, e se quello centrale si avvicina per modalità alla sceneggiata dei tempi, questo sembra volere allontanarsene. Il rapporto tra la rappresentazione della famiglia e il presepe è uno dei punti centrali del lavoro. La famiglia diventa presepe ma senza i colori pastello del presepe, e appare nella sua falsità, nell’allusione di un’armonia, di una perfezione che sono fittizie. Per quanto riguarda invece il secondo atto, quello del carretto, mettendo in scena i pastori e gli animale volevo rimandare al teatro del Novecento, e non solo italiano; penso a Brecht, alla sua Madre coraggio,anche perchè nel Natale di De Filippo ci si concentra sempre sul personaggio maschile, mentre io ho cercato di mettere in rilievo quello della moglie, Concetta – in scena è la molto brava Monica Piseddu- che è la figura forte. Lei porta il peso di tutto, affronta i conflitti e anche quando sembra vacillare resiste, mentre lui muore per il dolore.

Torniamo al rapporto con la tradizione. Nella tua lettura il figlio durante la veglia funebre uccide il padre. Un gesto forte.

Sapevo che mi avrebbe esposto a molte critiche, come poi è stato ma era una metafora di cui sentivo profondamente la necessità. Dal punto di vista drammaturgico non si tratta dell’uccisione del padre ma della sua liberazione. É un modo di dirgli: vai adesso, il fardello me lo assumo io. Parlare di metafora è non è casuale. Quel gesto per me rappresenta un modo per interrogare il senso del teatro oggi, se vale la pena tenerlo vivo come un cadavere o se non è meglio farlo morire per poi permettergli di rinascere.

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