«L’Illuminismo può farci superare la crisi climatica»
Intervista Dipesh Chakrabarty, la figura più importante degli studi post-coloniali e subalterni: «La vera sfida oggi è combattere il riscaldamento globale. E l’eredità del pensiero europeo ci può aiutare»
Intervista Dipesh Chakrabarty, la figura più importante degli studi post-coloniali e subalterni: «La vera sfida oggi è combattere il riscaldamento globale. E l’eredità del pensiero europeo ci può aiutare»
Dipesh Chakrabarty è professore di storia presso l’Università di Chicago e membro del centro di teoria politica contemporanea presso la stessa università. È considerato una delle figure principali degli studi postcoloniali e subalterni. Gli studi postcoloniali hanno proposto una nuova teorizzazione dei temi dell’identità, della storia e della cultura dei popoli colonizzati. All’interno di questi, gli studi subalterni su concentrano sui gruppi dominati e sulla loro storia. Il libro di Chakrabarty Provincializzare l’Europa (Roma, Meltemi, 2004), è uno dei lavori più influenti all’interno degli studi postcoloniali. In questo lavoro, l’autore fa una diagnosi della perdita di influenza e di centralità dell’Europa nel mondo, e di come la sua eredità teorica e di pensiero possa essere rivitalizzata a partire dai margini, ovvero dai continenti e dalle classi considerate subalterne. Le tesi di Chakrabarty hanno dato vita a numerosi dibattiti e critiche, l’ultima delle quali è mossa da Vivek Chibber, professore di sociologia all’università di New York, nel suo libro Postcolonial Theory and the Specter of Capital (Verso, 2013). Una sintesi dell’argomento di Chibber in polemica con Chakrabarty è in edicola con il numero di maggio di Le monde diplomatique, in vendita insieme al manifesto. Abbiamo chiesto a Chakrabarty un’analisi sul futuro dell’Europa in vista delle imminenti elezioni per il parlamento europeo, a partire sia da una visione della provincializzazione del continente, sia dai suoi recenti lavori su capitalismo e cambiamento climatico.
Nel suo «Provincializzare l’Europa» lei mostra che la fine dell’imperialismo europeo implica anche un decentramento dell’Europa. Alle prossime elezioni europee, partiti esplicitamente neo-nazisti come Alba Dorata in Grecia, ed anti-semiti come Jobbik in Ungheria, guadagneranno dei seggi a Bruxelles. Il Fronte Nazionale di Marine Le Pen è su posizioni razziste, anti-immigrazione e ultranazionaliste, e dovrebbe avere venti deputati nel prossimo parlamento europeo. Come legge la crisi che l’Europa sta attraversando, ed in particolare il ritorno del razzismo su scala continentale? Si tratta di una reazione alla provincializzazione de facto dell’Europa nel mondo?
Buona parte del razzismo europeo dopo la seconda guerra mondiale è stato di tipo post-imperiale. C’è voluto molto tempo perché le nazioni europee e le loro popolazioni – incluse larghe sezioni dei loro intellettuali – iniziassero ad accettare la perdita dei loro imperi e capissero che l’Europa aveva perso la loro posizione di signori dell’umanità. Allo stesso tempo, le realtà demografiche del dopoguerra hanno richiesto l’immigrazione di lavoratori di colore, qualificati e non, in Europa e in altre parti del mondo occidentale sviluppato. Questo processo è stato alimentato dalle crisi economiche dell’Unione europea, dalla rimessa in questione neoliberista del capitalismo sociale, dai regimi di austerità imposti in alcune parti d’Europa, e dall’aumento dell’immigrazione, spesso illegale. I campi di detenzione per gli immigrati illegali in Europa ormai punteggiano l’intera mappa dell’Ue e si espandono anche in Nord Africa (come hanno dimostrato i lavori di Sandro Mezzadra, Brett Nielson ed Etienne Balibar). Ma viviamo ancora in un mondo in cui le istituzioni globali sono fondate su alcuni dei concetti chiave del pensiero europeo, quali quelli di democrazia, autogoverno, cittadinanza, eguaglianza di fronte alla legge, e così via. Queste categorie sono parte di un’eredità globale e ci forniscono un linguaggio sul quale possiamo accordarci e che possiamo usare per affrontare e risolvere i conflitti.
Come ha scritto Massimo Serafini su queste pagine, il tema del cambiamento climatico è assente dal dibattito sulle elezioni del parlamento europeo. Nel suo lavoro recente, lei si concentra sulle difficoltà che solleva la nostra comprensione della dimensione storica del riscaldamento globale.
Il problema è che il cambiamento climatico richiede un’azione globale a partire da un calendario comune. Se la Cina e l’India costruiranno nuove centrali energetiche a carbone (a partire dal ragionamento legittimo che questa è ancora l’opzione più economica per far uscire i loro milioni di cittadini dalla povertà) e se gli europei, gli americani e i giapponesi scopriranno altre fonti non convenzionali di estrazione del petrolio, questo renderà difficile abbassare i prezzi delle energie rinnovabili e cosi incoraggiare le nazioni a usarle. La tesi euroscettica secondo la quale gli europei stanno rendendo l’energia più costosa per se stessi, e questo senza alcun vantaggio specifico, mentre il mondo non reagisce in modo globale alla crisi, rimarrà. Quali che siano le ragioni, una giustificazione di tipo economico per le energie rinnovabili non è ancora emersa. Il che significa che l’umanità potrebbe non essere in grado di evitare un cambiamento climatico pericoloso e comunque noi ci adatteremo ad esso, ne soffriremo di più che se i politici nel mondo fossero riconducibili a una persuasione razionale. Ma l’incapacità dell’umanità ad agire senza che il mercato ci spinga a farlo fa parte della difficoltà che gli essere umani hanno nel rispondere a una crisi che non è immediata e nel breve periodo, e i cui peggiori effetti attendono le generazioni future.
Come lei osserva nel suo articolo «Il Clima della Storia: Quattro Tesi», pubblicato dalla rivista Critical Inquiry, la connessione tra la globalizzazione del capitale ed il cambiamento climatico non è ancora sufficientemente compresa. Perché, e fino a che punto, è centrale la comprensione di questa relazione per dare una risposta alle sfide che l’Europa si trova di fronte oggi?
In effetti penso che la relazione tra la globalizzazione e il cambiamento climatico non sia compresa in modo adeguato dagli scienziati sociali, e in particolare da coloro i quali pensano che tutto ciò che c’è di negativo nel mondo è stato creato dal capitalismo e solo dal capitalismo. Non v’è alcun dubbio che la civiltà industriale basata su un abbondante consumo di combustibili fossili abbia contribuito in larga parte al cambiamento climatico generato dall’uomo. Ma il capitalismo fa parte integrante della storia umana; gli esseri umani sono centrali nella storia della globalizzazione. Il riscaldamento globale, d’altra parte, implica dei processi planetari di lungo termine, e le storie di questi processi: la storia del sistema terra, dei diversi modi in cui il pianeta si regola (per esempio, il suo ciclo millenario del carbonio), e la storia dell’evoluzione della vita su questo pianeta. Senza dubbio, il capitalismo globale ha, in un certo senso, interferito con questi processi più vasti. Tuttavia sarebbe errato dire, come per esempio fa Zizek nel suo Living in the End Times (Londra, Verso, 2010), che la produzione capitalista ora guida questi processi planetari di lungo termine. Questo non è successo. Per quanta anidride carbonica gli uomini immettano nell’atmosfera, i paleoclimatologi sottolineano il fatto che il pianeta, attraverso il ciclo del carbonio di lungo periodo, se ne prenderà cura, semplicemente su una scala temporale non-umana. Noi potremmo esaurire i combustibili fossili disponibili per noi; ma i geologi dimostrano che i combustibili fossili diventeranno di nuovo disponibili, ma tra duecento milioni di anni circa. David Archer, un paleoclimatologo, sostiene che abbiamo già modificato il clima del pianeta per i prossimi 100 mila anni. Il capitalismo durerà per altri 100 mila anni? Forse rispondere di sì significa riporre troppa fiducia nel sistema capitalista. Quindi questo è ciò che penso: la storia umana, durante la fase di della civilizzazione industriale (la si può genericamente chiamare capitalismo) ha finito per interferire con processi geologici e biologico-evolutivi che lavorano su scale temporali e geografiche ben più grandi di quelle del capitalismo. Ma questi processi planetari continueranno oltre ogni previsione futura, e sono semplicemente troppo grandi per essere determinati da quello che fanno gli uomini. Attribuire al capitalismo i poteri delle immense forze geofisiche del pianeta mi sembra un altro esempio dell’hybris umana, questa volta da parte di alcuni sostenitori dell’anticapitalismo. Capire la relazione tra la globalizzazione ed il riscaldamento globale è centrale per capire le differenze tra “globale” e “planetario”. La globalizzazione è in primo luogo una storia degli uomini e delle loro istituzioni; è una narrazione umanocentrica. Il riscaldamento globale include altri attori, tra cui il pianeta stesso. Adottare un approccio razionale al cambiamento climatico significa alla fine comprendere il posto dell’umanità nell’ordine delle cose. Segnala un cambiamento profondo nella nostra riflessione sulla condizione umana. Inoltre, la globalizzazione è una continuazione della storia su come i poteri imperiali europei un tempo hanno “Europeizzato la terra” e di come altri gruppi di uomini si sono adattati e hanno cambiato questo processo per le proprie esigenze.
Lei usa il termine «antropocene» per indicare che, oggi, gli esseri umani sono un’importante fattore geologico, in grado di cambiare le condizioni naturali dello spazio in cui viviamo, e del nostro futuro. Questo conferisce un nuovo significato ai valori dell’Illuminismo, come la libertà umana? E se sì, cosa implica per il modo in cui l’Europa si pensa e pensa il suo rapporto con le altre culture, storie e spazi?
I valori dell’Illuminismo acquisiscono una nuova importanza nell’età del riscaldamento globale. Penso in particolare ai valori della ragione e della riflessione. Il termine «cambiamento climatico antropogenico» è stato introdotto dagli scienziati. Senza investimenti nel valore del ragionamento scientifico, non c’è nessun problema di cambiamento climatico antropogenico, perché bisogna avere già delle conoscenze sugli episodi precedenti – e ce ne sono stati molti – di riscaldamento atmosferico su questo pianeta per sapere che quello attuale è antropogenico. Se quello che ho detto prima è giusto – che oggi dobbiamo disseminare un argomento razionale e morale in favore delle energie rinnovabili come bene comune specialmente quando il mercato non le favorisce – appare chiaro il valore del ragionare. Ed essere capaci di riflettere in modo razionale su quale futuro vogliamo è centrale per essere liberi. Cosa significa tutto ciò per l’Europa? Per prima cosa, che l’Illuminismo è un’eredità del pensiero europeo ancora attiva nel mondo. Ancora più importante, vuol dire che quest’eredità è oggi di tutti e che il riscaldamento globale richiede a europei e non europei di usarla nell’interesse di tutti. La crisi climatica pone molte questioni di regolazione e di governo globali – questioni che sono difficili da negoziare in un’epoca in cui lo stato nazionale regna ancora supremo. Ma questi sono problemi persistenti che riguardano i beni comuni globali – il pianeta, l’atmosfera, il clima, l’acqua e altre risorse – e che quindi ci ritroveremo ad affrontare nei prossimi anni.
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