Robert Lefèvre, “Dominique Vivant Denon”, 1809, Parigi, Louvre
Lo storico Krzysztof Pomian

Tra qualche giorno, il 23 marzo, Krzysztof Pomian (1934) sarà ospite dell’Università di Bologna per ricevere un’onorificenza e parlare del suo ultimo lavoro dal titolo Il museo Una storia mondiale. L’evento segue la pubblicazione in Italia del secondo dei tre volumi in cui l’imponente opera è scandita: L’affermazione europea, 1789-1850 (Einaudi «Grandi Opere», pp. 394, € 85,00, trad. di Luca Bianco e Raffaela Valiani). Seguirà la traduzione del terzo volume, Alla conquista del mondo, 1850-2020, uscito di recente in Francia.
Pomian, studioso di lungo corso e molteplici interessi, ha ricostruito secondo una prospettiva storico-filosofica la secolare vicenda di quel «luogo bizzarro» chiamato museo; e avendone in precedenza considerato le origini e gli archetipi, nel nuovo tomo tratta i progressi dell’istituzione museale nei paesi toccati dagli ideali dell’Illuminismo.
La prima parte del libro è interamente dedicata alla Francia, che tra Sette e Ottocento attraversa una convulsa stagione di rivolgimenti politici, sociali e culturali: nei ventisei anni che intercorrono dalla presa della Bastiglia all’abdicazione di Napoleone, infatti, Parigi diventa l’epicentro da cui s’irradia ogni innovazione relativa al museo. Alla Rivoluzione si può inoltre ricondurre la nozione stessa di museo nazionale, inteso quale organo vitale per ogni società civile che, consentendo l’accesso democratico ai capolavori, garantisce l’esercizio dei diritti fondamentali dell’uomo. «Non è un effetto premeditato, e all’inizio non vi è nulla che lo preannunci. Parliamo di misure (…) che introducono una modalità fino ad allora inedita di creare musei, ai quali conferiscono un’importanza senza precedenti, moltiplicandone il numero e ampliandone il ventaglio tematico. Questo impulso si esaurirà soltanto alla metà del XIX secolo».
Le violenze del Terrore avevano portato allo scoperto le contraddizioni di un potere diviso al proprio interno tra i partigiani dell’iconoclastia e i difensori della memoria culturale, e indeciso tra una pulsione distruttiva, forse non più governabile, e una politica di conservazione sicuramente difficile da attuare, per difetto di risorse umane, scientifiche e finanziarie. Tuttavia, la volontà di preservare ciò che poteva rivelarsi utile all’istruzione pubblica stimolò l’idea di un grande inventario generale degli oggetti e dei monumenti d’arte; iniziò allora a circolare l’espressione «patrimonio artistico» e si cominciò a vedere nel dispositivo museale uno strumento per la rappresentazione delle identità, utile a riconfigurare nel presente le eredità del passato. Le élite municipali si convinsero che ogni città dovesse avere un proprio museo, al fine di assicurare agli abitanti «i mezzi per esercitare il “diritto alla felicità” offerto loro dalla conoscenza delle scienze e delle arti».
A Parigi, alla vigilia della Rivoluzione, esisteva un solo museo (il Cabinet du Roi, gabinetto di storia naturale); ma nell’agosto del 1793 s’inaugurava finalmente il Louvre, frutto di un’espropriazione e gestito grazie all’entusiasmo di volontari. Nelle discussioni che accompagnarono la fondazione del Louvre, in cui la spicca la figura di Dominique Vivant, barone Denon, emersero già diversi dei temi basilari circa natura e obiettivi del museo che animano ancora oggi il dibattito internazionale. Si accesero dispute tra chi auspicava un allestimento storicista, all’epoca presumibilmente fruibile soltanto da una limitata cerchia di eruditi, e chi prediligeva il colpo d’occhio, ossia un criterio di ordine estetico che potesse richiamare un più vasto pubblico.
Al contempo, il museo palesava la propria valenza ideologica fornendo al potere l’appiglio per legittimare condotte predatorie. In nome del libero accesso all’arte, le autorità francesi presentarono il saccheggio dei tesori artistici compiuto nei territori invasi come un atto di liberazione e «rimpatrio», ossia riconsegna dei capolavori alla loro giusta sede naturale. «Combattendo i tiranni proteggiamo le arti». L’evidente brutalità delle spoliazioni trovava spiegazione nel fine moralmente superiore di mettere alla portata di tutti quelle opere che nei paesi d’origine giacevano nascoste in collezioni precluse alla collettività. Pretestuosamente si sottolineava che «portare via senza gusto, senza selezione», era ignoranza e quasi vandalismo, rivendicando così in modo implicito che rubare con gusto e selezione era lecito perché la Francia era terra di libertà. Se non altro, le razzie perpetrate dagli eserciti rivoluzionari e imperiali francesi segnalarono alle coscienze dei popoli il valore dei rispettivi patrimoni.
La seconda parte del volume prende in esame il periodo della Restaurazione e le differenti maniere in cui le nazioni europee assimilarono localmente i modelli parigini, in particolare quelli del Louvre e del Musée des Monuments francais. In Europa «si rimase infatti entro il solco aperto nel 1789, pur essendo cambiate tanto la situazione politica quanto la distribuzione geografica delle nuove creazioni». Il primo effetto della tempesta rivoluzionaria fu la trasformazione dell’identità sociale dei proprietari delle ricchezze artistiche e culturali: le nazioni coinvolte negli espropri sperimentarono una capillare ricollocazione dei beni all’interno dei loro territori. In Spagna, Germania, Gran Bretagna e Danimarca, i fermenti nazionalistici e i processi di unificazione politica incoraggiarono la sempre più rapida propagazione di nuove tipologie museali: di arti applicate, di storia locale, di scienza e tecnica, ecc. Dopo aver riferito a questa cornice il Prado, il British Museum, la National Gallery, l’Altes Museum di Berlino, la Gliptoteca e la Pinacoteca di Monaco, il volume si arresta al 1850 e termina con un accenno alla Great Exhibition di Londra, 1851, spettacolare anteprima dei futuri orientamenti industriali, globalisti, coloniali, tecnologici e di massa – in sintesi, dell’epocale cambiamento che sarà argomento del terzo volume.
Svolgendo il racconto, Pomian descrive l’apparizione, conseguente alla diffusione dei musei, di nuove figure: gli appassionati e i critici. Tra questi, Louis Virdot, viaggiatore e corrispondente di riviste parigine, il quale a proposito del Museo Nacional di Madrid offre al lettore moderno una precoce testimonianza polemica sull’opportunità di acquisire pezzi di opinabile importanza: «poi un’altra massa, ancor maggiore, di originali, di imitazioni, di copie: tutte opere anonime, senza valore, di una pochezza così disperante, di una nullità così assoluta da non meritare di essere raccolte in una collezione pubblica. Un museo non è la bottega di un rigattiere, e avere questi pezzi per niente sarebbe ancora pagarli troppo cari».
Questo secondo volume conferma Il museo. Una storia mondiale irrinunciabile per comprendere genesi e sviluppo dell’istituzione. Pomian procede senza cedimenti di tono nella sua impresa di spigolatura delle informazioni componendo una narrazione densa ma non pedante, dall’andatura indubbiamente compassata eppure mai noiosa, che può vantare il raro pregio di risultare appetibile all’esperto quanto al neofita.
Pertinente alla medesima nicchia, affine nelle intenzioni, e per alcuni versi perfino in debito nei contenuti con Pomian, è il testo di Raffaella Fontanarossa dal titolo Collezionisti e musei. Una storia culturale («Piccola Biblioteca Einaudi. Mappe», pp. 356, € 25,00): un valido contributo alla disciplina, concepito con il taglio compendiario e didascalico tipico del manuale universitario.