Nel primo capitolo della Genesi Dio crea l’uomo e la donna pari e consustanziali. Nella satira medievale dell’Alfabeto di Ben Sira la prima compagna di Adamo è Lilith, creata insieme a lui prima dell’arrivo di Eva (cosa che accade nel secondo capitolo della Genesi, in effetti); Lilith rifiuta il dominio del maschio e fugge dall’Eden, prima del «peccato originale», scegliendo l’oscurità.

Parte da queste basi Lilith, l’ultimo film di Bruno Safadi (brasiliano, classe 1980, assistente e produttore di Julio Bressane, autore qualche anno fa del bellissimo Belair, ritratto partigiano della società creata da Bressane e Rogerio Sganzerla all’inizio delle loro carriere di cineasti spericolati e marginal attorno al ’68), presentato nella sezione «Nuovimondi» all’ultimo Torino Film Festival che in passato ha ospitato alcuni dei precedenti lavori di Safadi, a partire dal suo primo cortometraggio, esattamente venti anni fa. Ci dice Safadi: «Mi sono avvicinata al mito di Lilith 9 anni fa. Leggendo la sua traiettoria con Adamo, ho compreso la potenza del mito attraverso la sua assenza nei testi sacri e la sua insistente sopravvivenza orale emarginata nel corso dei secoli. Sono rimasto stupito quando ho capito la sua risonanza nella storia dualistica occidentale e mediorientale, nella poesia, nella pittura, nella psicoanalisi e nell’astrologia. Lilith simboleggia la lotta per la parità di genere. Per questa forza e bellezza, ho voluto realizzare Lilith».

Le fonti storico-letterarie che ci riportano una donna che sceglie di non assoggettarsi all’uomo sono diverse e Safadi ne riporta alcune nella scrittura del suo kolossal essenziale: dall’ Epopea di Gilgamesh a Sefer Yetzirah e Ben Sira, arrivando poi alle letture che di questo straordinario mito ne danno, in epoca moderna, Mark Twain, Haroldo de Campos, Paul Kriwaczek, Raphael Patai, Lilly Rivlin. A Bruno Safadi non interessa tanto il mito stregonesco che accompagna Lilith sin dall’epoca mesopotamica, quanto la figura che Adamo, dalla sua origine, non ha saputo accettare come sua pari, con la quale (così ci tramanda il folklore ebraico – e così ci suggerirebbe l’esperienza…) è in perenne contrasto. La figura di una donna autonoma, libera, che non accetta di obbedire all’uomo e per questo lo abbandona al suo Paradiso preferendogli i demoni (che non temono il suo desiderio e la sua autorità, dimostrandosi in questo più democratici del maschio originario della tradizione giudaico-cristiana). Lilith dunque come mito contemporaneo, vivo. Lilith notte, Lilith sensualità, Lilith libertaria, Lilith battagliera, Lilith altera, così come è stata dipinta nei secoli da Albrecht Durer, Jan Brueghel, Rembrandt, William Blake, Gustave Doré, le cui pitture intarsiano il film, che a suo modo riscrive una storia dell’umanità seguendo le tracce di un’alterità sovversiva rispetto alla monocrazia culturale maschile, parlando al presente, dialogando col nostro presente.

Ci ha messo diversi anni Safadi a realizzare questo film che è come un diamante grezzo, la cui libertà e forza espressiva si rispecchia, anche, nelle schegge di quel cinema che ha accompagnato il giovane regista carioca nel suo percorso, rilanciandolo, sovrimprimendo alle parole dei testi antichi che le voci fuori campo sussurrano le immagini di Julio Bressane (Garoto), Rodrigo Lima (O Espelho), Alexander Dovzhenko (La Terra), Guido Brignone (Maciste all’inferno), Henri Chomette… in una sintesi sapientemente barbara in cui le differenze diventano parte integrante e indistinguibile di questo capolavoro brasiliano eccentrico. In questo senso è un film teorico, oltre che un grande film politico, Lilith, che senza ricorrere a una facile retorica o a proclami ideologici parla una lingua trasparente, graffiante, luminosa, liberatoria, aperta e abissale.

La necessità di Lilith, sembra dirci il film di Safadi, è quella stessa necessità di un cinema non addomesticato, non consolatorio, di un cinema che si rifiuta di obbedire ai codici prestabiliti, un cinema generativo, che ha l’ambizione di tracciare sentieri impervi, di mostrare nuovi mondi e nuovi modi di guardare, in una ideale linea di continuità con quello che hanno fatto in Brasile grandi outsiders ‘marginalisti’ come Bressane o Sganzerla, al di là delle mode culturali e delle imposizioni di regime (quello militare come quello commerciale che lo ha sostituito). Non stupisce in questo senso che tra i produttori di Lilith ci sia Carlos Diegues, storico protagonista del Cinema Novo.

Lilith è sovversione, è genesi naturale (fa pensare al geniale libro di Asger Jorn tradotto in italia da Nautilus, che affronta con beffarda ironia lo stesso tema), è dolcezza provocatoria, è sensuale oltraggio, è bellezza conflittuale.