Visioni

Ligabue: «Scrivo per un senso di speranza e appartenenza»

Ligabue: «Scrivo per un senso di speranza e appartenenza»Ligabue – foto di Maurizio Bresciani

Incontri Esce il 22 settembre «Dedicato a noi» il nuovo album del cantautore ’rocker’ di Correggio. Strutture semplici, pochi accordi e liriche che si aprono al racconto del presente con agganci al passato

Pubblicato circa un anno faEdizione del 19 settembre 2023

Strutture semplici, pochi accordi, liriche che dal privato si aprono al racconto del presente con più di un aggancio al passato. Sono le undici canzoni che vanno a comporre il nuovo lavoro del cantautore ‘rocker’ di Correggio e dove – come per tutti i suoi dischi precedenti, ha firmato testi e musiche. Prodotto da Luciano e Fabrizio Barbacci, Dedicato a noi (Warner, in uscita il 22 settembre) è un album al cento per cento legato all’universo sonoro di Ligabue ma che allo stesso tempo entra a gambe più o meno tese sulle grandi questioni del pianeta (guerre, disastri ambientali, povertà e discriminazioni).

Nuove canzoni che si appresta a presentare dal vivo dopo i due eventi estivi da 100 mila presenze tenuti a San Siro e allo stadio Olimpico, con un tour che lo vedrà protagonista prima all’Arena di Verona, il 9 e 10 ottobre, e poi nei palasport delle principali città italiane.

Nell’epoca della canzone smaterializzata, del trionfo dello streaming e della lunghezza imposta in tre minuti tre perché altrimenti ‘l’ascoltatore si distrae’ ha ancora un senso il formato album?

Ne sono più che consapevole ma non posso fare altro, è quello che mi viene più naturale anche se la consapevolezza ti porta a pensare che magari i frutti potranno essere diversi. Posso dire che sono uno allenato dal tempo e dall’esperienza, a vedere che in definitiva le canzoni fanno quello che vogliono loro. Perché noi viviamo nella convinzione che i cantanti abbiano il potere di dare una direzione a quello che compongono. E invece, la destinazione di ogni brano è misteriosa, imperscrutabile. E devo dire per fortuna, perché se ci fossero delle regole che fanno sì che ogni volta che scrivi un pezzo è un successo, allora tutti si applicherebbero (ride, ndr). E invece, le canzoni fanno quello che vogliono…

A streaming, algoritmi, si aggiunge anche la questione legata all’intelligenza artificiale…

Non ho ancora approfondito l’argomento, resto nel mio orticello. Certo è uno scricchiolio ‘sinistro’a cui dobbiamo prestare attenzione. Ma io comunque continuo a sentire la necessità di suonare. Dal primo giorno in cui ho iniziato a fare questo mestiere, ho sempre messo in chiaro di sentirmi un cantautore con il suono di una band: una batteria, un basso, due chitarre e ogni tanto i suoni di tastiere…

Il fil rouge che unisce idealmente tutto il disco e le sue storie, è che non ci salveremo da guerre, sfruttamento, pandemia ed emergenza climatica, se non ci si aiuterà l’uno con l’altro. Un afflato ecumenico seppure dal punto di vista laico…

È così, d’altronde è un mondo il cui futuro è in mano a meno di 100 individui che hanno lo stesso patrimonio di 4 miliardi di persone; la famosa forbice fra tutto e niente non è mai stata così ampia. Ho usato questi riferimenti in un pezzo Niente piano b: sono loro che hanno in mano le leve del futuro. Siamo sul Titanic, l’iceberg è di fronte e noi e ci andremo a sbattere.

Ma i «super ricchi»in qualche modo si salveranno, l’unico piano b potremmo essere noi. Il primissimo è proprio il noi della coppia, di una famiglia dove coinvolgo anche mio figlio Larry (che suona la batteria per la prima volta in tutti i pezzi del disco, ndr). E poi c’è un ’noi’ di cui io non riesco a fare a meno cioè il pubblico che mi segue nei concerti. Condividiamo gli stessi valori e gli stessi principi espressi dalle mie canzoni per oltre due ore.

Infine c’è un noi molto più difficile da definire. Magari nascosto, vasto o no che sia, che ha voglia di condividere gli stessi valori, gli stessi principi e abbia voglia di sentirsi dalla parte giusta. Un gruppo che ha ancora voglia di pensare che qualcosa si può ancora fare, quindi in qualche modo non cede alla rassegnazione.

In «Così come sei», seconda traccia del disco, fa la sua ricomparsa la coppia di ventenni che in «Salviamoci la pelle» (da «Lambrusco, coltelli, rose & pop corn», 1991) scappavano dal loro paese e dalle loro famiglie e da un destino che sembrava inevitabile. Perché questo ritorno trent’anni dopo?

Perché ho sempre fatto il tifo per loro. E noi sapevamo solo della loro partenza. Certo, c’è un buco di trent’anni in cui ho provato semplicemente a dire che in questo periodo, fra le altre cose, sicuramente hanno avuto dei figli. Ho immaginato che si sono ’salvati la pelle’ a modo loro e soprattutto insieme. E hanno ancora voglia di fare l’amore, con tenerezza. Li ho immaginati di spalle seduti su una collina, persi nei loro pensieri.

Nel corso della sua carriera non si è limitato alla forma canzone. Il cinema ad esempio ha rappresentato, e immagino rappresenti tutt’ora, uno sfogo importante alla sua creatività. Cosa l’affascina della settima arte?

Il cinema nel senso più completo è il piacere di vederlo in sala. Ma sono stato anche un collezionista feticista, quando facevo il ragioniere, qualche epoca fa. Ricordo che con le vecchie videocassette da 240 minuti cercavo di tenerci dentro due film che registravo nella notte su Rai3. Non andavo a letto per poter cancellare le pubblicità, perché volevo quei nastri puliti, volevo possederli come film proprio.

Certo girare un film è un processo molto, molto più faticoso di fare musica e soprattutto salire sul palco. Ricordo il primo giorno sul set per Radio Freccia, dovevo presentarmi di fronte a una troupe di romani scafati che avevano fatto quel mestiere per decenni, vedendomi arrivare dicevano ’questo sta a fa du firme: er primo e l’ultimo’. Quindi non esattamente la cosa più semplice del mondo… Però fortunatamente, grazie anche alla mia passione, sono riuscito a mettere in piedi una storia con un senso: perché fare cinema significa innescare un processo mentale di costruzione dell’emozione. Una forma di architettura definita, mentre la canzone è invece l’opposto, in tre minuti devi lasciare che l’emozione fluisca.

Ma alcune volte certi racconti hanno bisogno di spazio e devo quindi affidarmi al film. Certo ci vuole del tempo, fra il secondo e il terzo ho lasciato passare sedici anni e ora non ho nessun progetto, non so se ne farò un altro e se lo farò quando.

Si è anche dedicato a poesie e racconti, un’autobiografia che è uscita l’anno scorso per complessivi sei volumi. Ancora un altro tipo di scrittura: il formato canzone, il cinema, i libri…

La differenza è sostanziale. Devi fare i conti con un elemento cruciale che è la musica, cioè devi pensare che la parola «parlata» ha un peso specifico molto diverso da quella «cantata». Devi fare i conti con la metrica, la melodia, con le due cose che si mettono insieme e con il bisogno di sintesi a cui ti costringe una canzone. Con il fatto che le parole debbano suonare in un certo modo.

Dylan dice che la prima scelta dei suoi testi la definisce il suono più che il loro significato. Diverso il caso della parola applicata al cinema, perché quando scrivi una sceneggiatura devi fare i conti con delle regole, ma soprattutto con un budget a disposizione. Devi fare i conti con quello che potrai o non potrai fare e devi immaginarti come potrà essere visivamente quello che stai scrivendo.

Quando si parla di libri, invece, il racconto ha bisogno di una struttura di un certo tipo. Io fra tutte preferisco la forma racconto, è in assoluto la più libera che ci sia: semplicemente puoi scrivere quello che vuoi nella misura che vuoi, con la durata che vuoi. E quindi quando ho voglia di un po’ di vacanza da certi vincoli mi ci dedico molto volentieri.

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