Lidia Yuknavitch, voci dalle macerie di epoche di là da venire
Narrativa statunitense Dall’impresa delle maestranze che assemblarono la statua della Libertà al racconto di una bambina migrante che narra, con altri, da un cupo futuro a New York: «L’impulso», edito da Nottetempo
Narrativa statunitense Dall’impresa delle maestranze che assemblarono la statua della Libertà al racconto di una bambina migrante che narra, con altri, da un cupo futuro a New York: «L’impulso», edito da Nottetempo
Giugno 1885: la nave francese Isère attracca nel porto di New York con a bordo le casse contenenti i pezzi della Statua della Libertà. Insieme ad altri operai, l’haitiano Kem scende nella stiva a cercare le parti del corpo della donna che avrebbe preso vita dalle loro mani. È lui il cronista del fatto che apre il quarto romanzo di Lidia Yuknavitch, L’impulso (traduzione di Alessandra Castellazzi, Nottetempo, pp. 376, €19,00) che arriva a noi dopo lo straordinario successo di critica del memoir La cronologia dell’acqua. Nell’eterogenea comunità di uomini e donne impegnati nella monumentale realizzazione di un ideale di libertà, l’haitiano Kem è il primo portavoce fra i «meno degni di nota»: «Venivamo da qualcosa che dovevamo lasciare», ricorda, «Eravamo oceani di lavoratori. Parlavamo russo e francese e italiano e inglese e cinese e irlandese e yiddish, swahili e lakota e spagnolo e un turbinio di dialetti». Versione romanzata della poetica di Yuknavitch, L’impulso è un insieme di storie narrate da più voci, una «lettera d’amore alla lingua» il cui impianto narrativo poggia su un intreccio di trame che si richiamano modulandosi in un’affascinante sinfonia di idiomi, ben calibrata.
Subito interrotta, la voce di Kem ci trasporta in un futuro distopico datato 2079 e 2085: il «grande Innalzamento delle Acque» a causa del riscaldamento climatico ha sommerso The Brook (Brooklyn) e Lady Liberty – attrazione per i pochi sopravvissuti al collasso – si sta inabissando. Intorno, tutto è immerso nella cupa atmosfera che un regime di polizia xenofobo ha imposto alla città post-apocalittica, con raid di uomini armati alla ricerca di rifugiati da portare chissà dove. In questo desolato habitat irrompe Laisve, bambina lituana arrivata su un barcone di migranti, ora attratta da curiosi oggetti e dalla madreacqua di cui sente l’irresistibile richiamo. Mentre il padre lavora alla costruzione del Muro Marino che dovrebbe respingere le maree, lei sfida il pericolo rovistando fra le macerie in cerca di qualcosa da scambiare con il proprietario di una improvvisata Wunderkammer, dove tutto proviene da altre epoche. Per esempio, la grossa P di plastica azzurra che la bambina ha recuperato fra i detriti e baratta con una mela.
Laisve, che in lituano significa libertà, dice di sé di essere una carrier, una portatrice, che «non deve temere di trasgredire il tempo»: attraverso l’acqua viaggia avanti e indietro nell’arco di due secoli per ricongiungere persone lontane tramite oggetti che hanno avuto per loro un particolare significato. Ricombina le loro storie, ridà un senso a ciò che si è disgregato. La madre, linguista e formidabile storyteller, uccisa mentre saliva sulla barca che doveva trarli in salvo, predice la sua missione nel loro primo incontro subacqueo e le mette in mano un potente talismano, il primo penny coniato nel 1793 con impressa l’immagine di una donna coi capelli al vento. Da quel momento Laisve sa che il tempo, come l’acqua, «slitta e si muove avanti e indietro, proprio come gli oggetti e le storie». Anche la sua vita, del resto, somiglia a «una lingua ricombinabile all’infinito». La assistono la tartaruga Bertrand, che segnala agli umani «I vostri ego idioti»; la balena Bal, veicolo sicuro per Laisve verso le profondità oceaniche e pronta a trasformarsi in barca per riportarla sulla terra; e i lombrichi che improvvisano per la bambina una dotta conversazione, lanciando accuse agli umani irriconoscenti, così poco consapevoli degli ecosistemi.
Benché Yuknavitch tenga a sottolineare che non c’è, nel romanzo, un personaggio principale, la sua Laisve funziona da deus-ex-machina che, come l’Ariel shakespeariano, tiene insieme le trame e tesse il loro evolversi. «Le storie sono quanti», dice un narratore, campi di forze inarrestabili e connettori di esistenze. Sono, in questo libro, lo stratagemma che manda avanti la narrazione e trasforma il vissuto in mitologia. «Una volta c’era una bambina d’acqua che viveva nel ventre di una balena…», dice Laisve, ad esempio, quando narra alla tartaruga le sue vicende, sublimando in questa forma di finzione il dolore per la perdita del padre, vittima di un raid. In ogni storia torna la parola libertà, semanticamente modificata: per esempio nel racconto epistolare dell’intenso rapporto erotico fra Frédéric Bartholdi, autore della statua, e Aurora Boréalis, la carismatica cugina americana professionista del sesso inventata da Yuknavitch. Spudorata musa ispiratrice dell’opera, Aurora spinge Frédéric a liberarsi dalle sue inibizioni e progettare per New York un corpo di donna né maschile né femminile. Fatti e figure storiche vengono amalgamati da Yuknavitch nell’affabulazione di una fiaba connotata da un seducente effluvio lirico di parole, che passano efficacemente da un registro all’altro, contemplando persino trattatelli su argomenti scientifici o etnografici, per bocca della onnisciente Laisve, che incarna il ruolo di memoria del mondo. Lo scatto finale di Yuknavitch in questo straordinario romanzo la trasporta nel regno dell’utopia: ora siamo in un futuro imprecisato, la sua alter-ego è cresciuta, e ridispone le parole preferite in nuove «storie della buonanotte» da raccontare ai bambini: storie costruite su altre storie che sfumano nel folklore dei poemi Yacut, studiati un tempo dalla madre, uccisa mentre fuggiva verso il nuovo mondo.
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