Punto e virgola, il più ambiguo dei segni, e il più minacciato

Edvard Munch, Ritratto di Friedrich Nietzsche, 1906

«Gedankenstrich», Segno di frattura o di precisazione, a volte di pura follia

Cyprian Kamil Norwid, una breve lineetta per orchestrare la voce

Il punto con corona, utopia anarchica applicata al tempo

Tracce visibili dell’inespresso, nei puntini di sospensione

Raymond Carver, una sintassi spezzata al limite dell’afasia

Pubblicato negli Stati Uniti nel 2011, La cronologia dell’acqua (Nottetempo, traduzione molto efficace di Alessandra Castellazzi, pp. 334, euro 17,00) è il primo libro di Lidia Yuknavitch ad avere ottenuto un rilevante successo di pubblico, e precede le sue due opere uscite finora in Italia: Dora – una rilettura romanzata di uno dei casi clinici più famosi narrati da Sigmund Freud, accompagnata da una prefazione dell’amico Chuck Palahniuk – e Il libro di Joan, riproposizione in chiave fantascientifica e distopica del personaggio di Giovanna D’Arco.
L’incipit di quest’ultimo romanzo è potente quanto sviante: Yuknavitch racconta «il giorno in cui mia figlia nacque morta», e lo fa con una corporeità bruciante che, nelle sue diverse declinazioni, è forse il vero leitmotiv del libro, attraversato da una costante commistione tra fisicità, umori e sesso da una parte, e ricerca intellettuale e scoperta della scrittura dall’altra. L’istinto del lettore viene immediatamente – e falsamente – orientato verso una specifica tipologia di memoir: quello, incentrato sul dramma e sull’elaborazione del lutto, che ha nell’Anno del pensiero magico di Joan Didion il suo modello forse insuperato.
Il memoir di Yuknavitch è però tutt’altra cosa, e il lutto, la perdita, l’esperienza della morte per procura, non sono che alcune delle corde toccate da una narrazione fluviale e spudorata, che ha nell’acqua e nella sua fluidità il proprio principio ispiratore. Nata in una famiglia che definire problematica sarebbe eufemistico, con un padre che esercita in modo sistematico l’abuso – fisico e psicologico – nei confronti di Lidia e della sorella, e con una madre alcolizzata e persa in una sorta di mondo parallelo, Yuknavitch trova nel nuoto – almeno durante gli anni dell’adolescenza – un punto di fuga e l’occasione per allontanarsi dai genitori, ma finisce per abbandonarlo ben presto, per farsi espellere dal college che l’ha accolta grazie a una borsa di studio per atleti, e per precipitare in una condizione promiscua e dispersiva, tra alcol, droghe, relazioni con donne e con uomini, fino a trovare nella scrittura un’occasione di salvezza e di relativo equilibrio interiore.
La misura del mondo
L’acqua, però, e il nuoto, rimangono due coordinate fondamentali dell’esistenza, un modo di vedere e misurare il mondo, al punto di trasferirsi nella scrittura e dettarne i ritmi, le strutture interne, la dimensione temporale. Yuknavitch lo afferma esplicitamente non solo nel titolo del suo memoir, ma anche in quella che si può considerare un’autentica dichiarazione di poetica, contenuta nelle primissime pagine del libro: «Tutti gli eventi della mia vita si intrecciano nuotando. Senza cronologia. Come nei sogni. Perciò se evoco il ricordo di una relazione o dell’andare in bicicletta o del mio amore per l’arte e la letteratura o della prima volta che bagnai le labbra d’alcol o di quanto adoravo mia sorella o del giorno in cui mio padre mi toccò la prima volta – non c’è un senso lineare. Il linguaggio è una metafora dell’esperienza. È arbitrario quanto la massa di immagini caotiche che definiamo memoria; ma possiamo comporre frasi per narrativizzare la paura».
Il rifiuto della linearità si manifesta a tutti i livelli del discorso narrativo: Yuknavitch preferisce alla scansione cronologica – che i memoir tradizionali tendono a rispettare – una costruzione del racconto che procede per associazioni di idee, strappi e ritorni, ripetizioni ed ellissi. Anche sul piano stilistico, stressa e sottopone a continue variazioni la lingua, il ritmo, la punteggiatura: ci sono interi capitoli scritti in un flusso continuo scandito da pochi punti fermi, che sembra recuperare e riformulare la tradizione della Beat Generation (Kerouac soprattutto, ma anche voci femminili dimenticate troppo presto come Diane Di Prima, con il cui Memorie di una beatnik il libro di Yuknavitch contrae un debito a tratti evidente).
Ce ne sono però altri nei quali la scrittura subisce una compressione estrema, sfiorando il minimalismo, come in questo ritratto del padre, di prodigiosa economia: «Prima che le mani di mio padre si rivoltassero contro di noi, era un architetto, un amante dell’arte. Prima che mio padre fosse un architetto, era un ufficiale di rotta nella Guerra di Corea. Prima che mio padre fosse un ufficiale di rotta, era un artista. Prima che mio padre fosse un artista, era un atleta. Prima che mio padre fosse un atleta, era un chierichetto infelice. Questo è il meglio che posso fare. Credo.»
Alla varietà di toni e registri si accompagna la volontà di non incasellare il memoir dentro categorie precostituite. Se nel capitolo «Cosa non è» Yuknavitch ci tiene a sottolineare come la sua non sia «un’altra storia di dipendenza» e a respingere al mittente qualunque paragone banalizzante con Trainspotting o con le opere di William Burroughs; se, come già sottolineato, La cronologia dell’acqua non è la storia di un lutto e della sua elaborazione, sarebbe altrettanto limitativo definirlo una storia di abusi in ambito famigliare, una storia di formazione sportiva o letteraria. Il libro è tutte queste cose e insieme nessuna di esse; è piuttosto il loro intreccio tradotto in letteratura, a partire dal rifiuto di qualunque regola precostituita o di filtro intellettualistico.
Da dove nascono le storie
Ogni episodio narrato, ogni aspetto di una vita segnata dal danno, dalla dipendenza e dalla passione, viene riproposto senza mediazioni, alla costante ricerca di una lingua e di una modalità di racconto che si modelli sulla specificità dell’esperienza. «Chiedetemi della mia vita in quanto corpo sessualizzato, ridotto al suo genere», dice Yuknavitch, «e vi racconterò delle storie. Infinite storie di una donna che ero ma è anche tutti noi. Chiedetemi della scrittura e, be’, è ferocemente privata. La scrittura, lei è il mio fuoco. Le storie nascono dal luogo dove in me sono avvenute la vita e la morte».
Non stupisce che un memoir così atipico, viscerale e innovativo insieme, si sia trasformato rapidamente in un libro di culto. Lontano dai romanzi mascherati da memoir che hanno fatto la fortuna dei Safran Foer (Ogni cosa è illuminata) o degli Eggers (L’opera struggente di un formidabile genio) e che giocano con gli stilemi del postmoderno, La cronologia dell’acqua attinge al beat attraverso il magistero di Ken Kesey, con il quale Yuknavitch ha lavorato a un romanzo collettivo, peraltro di modesta qualità; rende omaggio, nella capacità di fare del corpo femminile non solo il contenuto ma la forma stessa della scrittura, al genio iconoclasta di Kathy Acker e di maestre poco note in Italia come Lynne Tillman o Carole Maso; propone un’idea di scrittura insieme altissima e aliena da ogni intellettualismo, per la quale la stessa Yuknavitch dichiara di non aver mai trovato una definizione adatta, preferendo descriverla in questi termini: «Quando prendi tutto quello che hai sempre saputo della costruzione dei personaggi, della trama, dell’intreccio e lo fai saltare in aria come facevo io da piccola con i petardi nelle teste delle Barbie: qualunque sia la parola per descriverlo – ecco, noi facevamo così».

Lidia Yuknavitch, fra il nuoto e il dolore

Illustrazione di Gustave Dore (1832-1883) da «Le Journal pour rire», No 96, 1853 /Getty Images

Parla lo scrittore francese che pubblica «La famiglia Martin» per Solferino. Le vicende dei protagonisti si impongono a tal punto da far credere che l’autore le abbia solo messe in fila. «Una donna di 82 anni che perde la memoria è sconvolgente. Un adolescente che non sa cosa diventerà è commovente. In ogni vita c’è un romanzo. La letteratura è ovunque». «È il contrario di Pirandello: la storia avrebbe potuto intitolarsi “Uno scrittore in cerca di personaggi”. Lui vorrebbe raccontare persone reali, ma alla fine sono loro a “malmenarlo”»

David Foenkinos, la trama inattesa dell’autofiction

Un atipico memoir di Lidia Yuknavitch, costruito fra strappi, ritorni di idee, variazioni di registro, in una lingua stressata. «La cronologia dell’acqua», in America un culto: da Nottetempo