Cultura

L’ideologia della sopraffazione

L’ideologia della sopraffazioneSoldati tedeschi fanno il loro ingresso a Riga, luglio 1941 (da Wikipedia)

Novecento Per Einaudi, «Il contrario dell’oblio. L’Olocausto tra memoria e giustizia» di Linda Kinstler. L’autrice lavora sulla sua famiglia, sulle intese con l’occupante, affondando «lo sguardo negli abissi»

Pubblicato 9 mesi faEdizione del 30 dicembre 2023

Se per capire un libro, quindi le intenzioni autoriali così come quelle editoriali che stanno dentro ad esso, bisogna partire dalla copertina, allora la foto che l’accompagna, in questo caso, ne è assolutamente esemplificativa. Si tratta di un’immagine della propaganda nazista, che ritrae l’entusiastico ingresso a Riga, capitale della Lettonia, nel luglio del 1941, delle truppe tedesche.
Un gruppo di soldati sorridenti, «virili», maschi e ineccepibili nelle loro divise tirate a lucido, ricevono mazzi di fiori da gaudenti signorine, evidentemente compiaciute del loro trionfale arrivo nella città. Anche a seguito di ciò, beninteso, le violenze, i massacri, le stragi che ne sarebbero derivate. E che in parte, per ciò che riguarda i nazionalisti baltici, erano immediatamente avvenute dopo la fuga dei sovietici. In tutto ciò rimane comunque un universo di significati, raccolti in una sola foto che – peraltro spesso ripetuta nei suoi canoni di fondo dai mezzi di comunicazione del tempo, completamente nazificati (raccogliendo in un’unica soluzione entusiasmo, potenza, maschilità trionfante e femminilità soccombente, quindi militarismo, machismo e sessismo) – a tutt’oggi rappresenta una specie di sintesi dell’ideologia della sopraffazione razzista di cui il Terzo Reich ha costituito, storicamente, la punta di diamante. Per tutta l’età contemporanea, arrivando fino a noi. Nonché ammonendoci sul fatto che, sia pure in forme sedimentate, e come tali di difficile identificazione, tali resistono alla prova etica del tempo che nel mentre è trascorso.

NON È VERO che si diventi «migliori» avendo coscienza del passato, beninteso quand’anche essa si dia a pieno titolo. Ancor peggio, semmai, nel momento in cui si occultano le proprie responsabilità come se si trattasse di polvere da buttare sotto il tappeto. Poiché, a rigore di metafora, ciò che si nasconde non sparisce ma, piuttosto, diventa come un grumo che accompagna quella condizione che chiamiamo inconscio collettivo, dove alla finzione di un’accettabile normalità, tale poiché falsamente decorosa, parimenti si sovrappone lo sforzo di celare le discontinuità proprie e del contesto di cui si è componenti nonché, al medesimo tempo, immediata espressione.
L’Europa ha costruito la sua identità, la sua egemonia, anche attraverso pile di cadaveri. Nelle colonie africane e asiatiche, prima, e poi dentro sé stessa. A partire da quei territori del suo Oriente che sono stati intesi come terra di conquista, rapina e selvaggia trasformazione sociale e demografica. Queste sono le prime riflessioni, in sé del tutto obbligate, da cui partire, affrontando la lettura del libro di Linda Kinstler, Il contrario dell’oblio. L’Olocausto tra memoria e giustizia (Einaudi, per la traduzione di Gaspare Bona, pp. 314, euro 20,00).
Il testo che il lettore ha tra le mani appartiene, di buon grado, a quel genere di produzione letteraria che, confrontandosi con il lascito del Novecento, ne rielabora i significati rispetto al tempo corrente, ossia a quella «terza generazione» di oggi, tale perché maneggia il tema della distruzione dell’ebraismo europeo, tra il 1941 e il 1944, con la distanza che occorre per formulare un giudizio complessivo non travolto dall’emozione degli eventi. I quali, nell’Europa dell’Est, e tanto più nei Paesi baltici, non sono solo quelli dell’azzeramento dell’ebraismo locale ma anche, e soprattutto, dell’accettazione di un «nuovo ordine europeo» di impronta schiettamente hitleriana. La qual cosa implica, a tutt’oggi, un meccanismo collettivo di identificazione e collusione.
Non a caso, a un certo punto del testo, l’autrice, che lavora sulla sua famiglia, dunque sulle sue intese con l’occupante, afferma programmaticamente: «ho cercato di affondare lo sguardo negli abissi del passato e di riportare a galla ciò che potevo, di capire come vengono tramandate, conservate e alterate cammino facendo le storie che raccontiamo su noi stessi e le nostre famiglie».

IL FUOCO DEL VOLUME, quindi, non è il concetto di colpa e, con esso, la pratica giudiziaria dell’imputazione, come troppo spesso si chiede invece di fare non solo agli storici ma anche a ciò che definiamo con il nome collettivo di «memoria». Il baricentro del libro, semmai, è la sovrapposizione tra un passato europeo completamente colluso con la degenerazione nazifascista e un presente dove lo spaesamento collettivo sembra costituire il vero suggello profondo di ciò che stiamo condividendo. Il fuoco della riflessione, quindi, non è più l’inflattiva (in sé paternalistica, nonché predicatoria) riproposizione delle retoriche legate al «mai più!», così come a una sorta di ossessione legata allo sguardo verso un solo sterminio, bensì la comprensione delle dinamiche sia di quanto avvenne allora come – anche e soprattutto – del modo in poniamo noi stessi di fronte agli interrogativi del passato. Sempre più spesso, per rifuggire quelli irrisolti che invece ci presenta il tempo presente e a venire. Kinstler non filosofeggia. Il suo libro è un resoconto, in prima persona, dei coni d’ombra intercorsi tra nazionalismo, collaborazionismo e sterminazionismo.

L’ELIMINAZIONE dell’ebraismo dell’Europa orientale, a partire dai Paesi baltici, diventa così un campo di prova, un elemento quasi laboratoriale di verifica, per comprendere come le identità nazionali si basino su quel processo mentale definito come rimozione, che è la premessa di qualsiasi indagine sul rapporto tra delitto e omissione, tale poiché sospeso tra identificazione con il carnefice (seduttore in quanto potente di turno) e sedazione della coscienza. La nozione di «giustizia», in questo caso, non demanda tanto all’attività delle magistrature e dei tribunali bensì a quel bisogno di ricostruire, per comprendere fino in fondo, il senso di un’appartenenza politica, senza la cui soddisfazione c’è solo il vuoto delle mitografie nazionaliste. Il dispositivo, tanto per capirci, attraverso il quale i fascismi di allora e i sovranismi di oggi costruiscono invece le proprie fortune.
Non a caso l’autrice, a un certo punto della sua narrazione, cita Carlo Ginzburg laddove questi afferma: «i sentieri del giudice e dello storico, che per un certo tratto corrono fianco a fianco, alla fine divergono inevitabilmente». Ad oggi, la necessità di giudicare (il passato) si è sostituita alla capacità di operare (nel presente). In una sorta di irrisolta nostalgia, basata non tanto sulla cognizione critica di ciò che fu bensì sull’impotenza rispetto a quanto avviene.

LA LATENTE DOMANDA di fondo rimane quella di politica. Ossia, di quella competenza di incidere nell’esistenza, personale e collettiva, senza sentirsi espropriati da soggetti terzi, come tali imprendibili. Una funzione, quest’ultima, che invece è decaduta nel corso degli ultimi quarant’anni. Non è allora più un caso se, dinanzi alla memorialistica della Shoah si possano manifestare anche elementi di rigetto, oppure atteggiamenti di scetticismo. I quali non rimandano necessariamente all’adesione ai motivi dei carnefici. Semmai, sono il segno di una diffusa sfiducia verso il binomio tra sapere e potere. Le due cose, infatti, sempre più spesso paiono disgiunte. Si può conoscere ma, tutto ciò, non costituisce più massa critica, attraverso la quale pesare nell’indirizzo dei cambiamenti collettivi. Tema, quest’ultimo, assai complesso ma necessario da affrontare per cogliere la miseria del tempo corrente.

IL RACCONTO DELL’OLOCAUSTO, da questo punto di vista, ci restituisce non tanto l’indirizzo e la maturazione della coscienza di una complessità morale, individuale e collettiva, quanto – semmai – il senso d’impotenza: di allora, quando intere società «moderne» ne furono coinvolte e quindi stravolte, così come di oggi, dinanzi alla nostra afasia rispetto al destino assegnatoci, che ci pare tanto inaccettabile quanto francamente ineludibile. Ossia, non ovviabile con gli strumenti della nostra sola consapevolezza.
Anche per questo, da ciò derivano pericolosi cortocircuiti, soprattutto quand’essi si alimentano non della capacità di identificarsi nella vittima che cerca di superare la sua condizione di subalternità emancipandosene ma, piuttosto, nel desiderio, in sé inconfessabile, di immedesimarsi nel suo stato di minorità, per poi chiedere perenni risarcimenti. A proprio beneficio, tenendo in scacco tutti gli interlocutori. In fondo, gli identitarismi di ogni genere e tipo, nascono e si rigenerano anche da una tale istanza, che costituisce, da sempre, il grado zero dell’azione politica.

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