L’ideologia dei piccoli borghi e come abitarci davvero
Da qualche giorno, sulle pagine di alcuni tra i principali quotidiani italiani, tiene banco un antico dibattito, mai accantonato perché mai risolto, mai risolto perché mai affrontato davvero. Si tratta […]
Da qualche giorno, sulle pagine di alcuni tra i principali quotidiani italiani, tiene banco un antico dibattito, mai accantonato perché mai risolto, mai risolto perché mai affrontato davvero. Si tratta […]
Da qualche giorno, sulle pagine di alcuni tra i principali quotidiani italiani, tiene banco un antico dibattito, mai accantonato perché mai risolto, mai risolto perché mai affrontato davvero.
Si tratta del decidere cosa farne dei piccoli borghi, di queste aree interne che, se da un lato definiscono l’essenza storica dell’Italia, d’altro canto rimangono oggetto misterioso per uno sguardo ormai addestrato alla logica della città. Parafrasando un vecchio adagio grossolano, «ascoltare urbanisti parlare di aree periferiche è come ascoltare un gruppo di uomini parlare di aborto», e il riferimento è alle affermazioni degli architetti e urbanisti Stefano Boeri e Massimiliano Fuksas, che hanno recentemente auspicato una riscoperta delle aree extra-urbane.
A queste sollecitazioni ha risposto anche Francesco Chiodelli (il manifesto del 24 aprile, «Città, piccoli centri e pandemia»). Il problema, osservato dal punto di vista di chi – documentarista e dottore di ricerca, castanicoltore – scrive dalla piccola valle Mongia, al confine tra Piemonte e Liguria, prende le sembianze concrete della signora Delia, ottant’anni compiuti, che con la forza della tenacia mantiene in piedi un ecosistema perfetto, di elegante autarchia.
Con le lacrime agli occhi, Delia l’altro ieri si chiedeva che ne sarà di quel posto, dal giorno in cui a lei verranno a mancare le forze.
Per uno strano scherzo del destino, poche ore più tardi i social network mi proponevano le stories del nipote di Delia. Rinchiuso nei suoi pochi metri quadri, il nipote di Delia ha avviato un food blog nel quale propone la narrazione di se stesso mentre cuoce il branzino. Di fronte a quell’immagine ambigua, non potevo fare altro di chiedermi: cos’è andato storto? Dove abbiamo sbagliato? Molte borgate stanno crollando, molti alberi innestati secoli fa saranno presto mangiati dalla vegetazione selvaggia, molti sentieri che portano verso antiche fontane tra pochi anni non saranno più leggibili. Un patrimonio di conoscenza che è frutto della biodiversità culturale che l’Italia ha saputo coltivare nella microparcellizzazione del suo territorio parrebbe essere condannato al disastro.
Ben venga, dunque, un serio dibattito circa il destino di uno stile esistenziale coltivato lungo i secoli, soprattutto in un’epoca, come quella attuale, che ha mostrato in maniera evidente l’inadeguatezza di quel che Pasolini definì «sviluppo senza progresso». Ciò che è stato malamente accantonato è un territorio quasi interamente terrazzato, addomesticato e reso abitabile, garantendo canoni di bellezza estetica e di sostenibilità il cui riflesso ha contribuito (e potrebbe continuare a farlo) a rimodellare un’intera economia e un’intera società. Si, tratta, in primo luogo, di un paradigma che intende la vita umana come un’esperienza il più possibile completa, fondata su un rapporto armonico tra l’essere umano e lo spazio circostante, tra lavoro manuale e azione intellettuale, in un prendersi cura del mondo che va oltre alla mera soddisfazione di saper produrre con le proprie mani parte di ciò che si consuma.
Abitare i piccoli borghi o le aree interne, scegliere un luogo non codificato sulla digital map per condurre la propria esistenza significa educarsi alla visione prospettica, alla molteplicità degli orizzonti, alla fisicità degli elementi. Una visione alla quale non siamo più abituati: basti pensare alla domanda ricorrente più volte sentita da amici o conoscenti, miei coetanei nati negli anni Ottanta, quando vengono a trovarmi a Viola Castello, metri 850 sul livello del mare: «Qui è bellissimo. Ma come fai a viverci?».
Tralasciando ogni considerazione sull’assurdità della domanda («come fai a vivere in un luogo bello?»), vorrei soffermarmi sul fatto che il «qui» in questione è ubicato a soli 20 km da un casello autostradale, una stazione ferroviaria, un ospedale mutilato ma ancora funzionante, una scuola superiore, un cinema, un teatro e un circolo culturale. Questi 20 km, che equivalgono a 20 minuti di viaggio in una valle-giardino, dovrebbero forse rientrare in ciò che alcuni intellettuali, e tra di essi Francesco Chiodelli, definiscono «il costo ambientale ed economico della dispersione residenziale?».
Verrebbe da chiedersi per quanto tempo ancora le istituzioni preposte al sapere e alla costruzione del mondo di domani continueranno a educare uno sguardo arreso, addestrato ad accontentarsi di una prospettiva mutilata dal vetro di una finestra o dalla ringhiera di un balcone, emblemi perfetto della condizione attuale di un’intera società. Non resta dunque che augurarsi la migliore evoluzione possibile per questo dibattito, nella speranza che dalla condivisione critica possano sorgere azioni concrete per invertire la rotta.
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