Visioni

L’identità negata delle voci senza nome

L’identità negata delle voci senza nomeFeng Ai ('til Madness Do us Apart) di Wang Bing

Venezia 70 Fuori concorso Wang Bing in Feng Ai ('til Madness Do us Apart) racconta le vite dei pazienti di un asilo psichiatrico

Pubblicato circa 11 anni faEdizione del 6 settembre 2013

Wang Bing è entrato nella storia del cinema dieci anni fa, a bordo di un treno merci, con una cinepresa DV in mano, filmando dal finestrino del conducente il paesaggio innevato di un complesso industriale in dismissione. Alla fine delle riprese de Il distretto di Tiexi, i capannoni erano già vuoti e persino gli operai che smantellavano le linee erano andati via. L’ultima inquadratura, li faceva riapparire come fanasmi nel ventre della fabbrica, nell’atto di lavarsi insieme dopo il turno, come una volta. Per un attimo, il tempo lineare della Storia lasciava spazio a quello circolare della memoria. Già in quel primo film, Wang Bing si era dato come oggetto del proprio cinema la totalità e come soggetto delle figure singole nel quale il particolare da un lato e la Storia del paese dall’altro si definivano vicendevolmente.

‘till Madness Do Us Part, presentato fuori concorso, è stato quasi interamente girato in un asilo psichiatrico, in soli tre mesi. L’istituto, dove sono internate persone su richiesta della famiglia, del tribunale o della polizia, si trova in una regione povera del sud-ovest della Cina, lo Yunnan, distante migliaia di kilometri dalle fabbriche di Tiexi. Eppure, la sensazione è forte di ritrovare nei personaggi e nei luoghi un episodio in più dell’epopea sulla fine dell’industria pesante di Stato e a distanza di dieci anni una risposta alla domanda: che cosa sono diventati quegli operai ora che il lavoro non c’è più?

L’edificio si sviluppa su due piani. Al primo, dove non metteremo piede, si trovano le donne. Wang Bing si invita al secondo, riservato agli uomini, con la stessa apparente facilità con cui era entrato nelle fabbriche di Tiexi (la sua tattica consiste a non chiedere nessun permesso ufficiale, che gli sarebbe certamente rifiutato). Tutte le celle sono aperte, come le case dei villaggi cinesi, al posto della strada c’è un corridoio che, correndo tutto intorno al perimetro dell’edificio, ne sovrasta il cortile interno. Dal parapetto fino al tetto, una grata di ferro impedisce ai pazienti di lanciarsi nel vuoto ma permette di formulare tra un piano e l’altro proposte sessuali tanto disinvolte quanto impraticabili.

Qui, dove i pazienti bivaccano, si lavano, urinano, fumano, si coccolano o si mandano a quel paese, passiamo in loro compagnia la gran parte delle quasi 4 ore di ‘till Madness Do Us Part. Pur essendo solo una parte del tutto, la terrazza circolare rappresenta metaforicamente tutto l’ospedale psichiatrico e ogni malattia mentale. In una delle più belle scene del film, un giovane internato percorre il perimetro di corsa una, dieci, venti volte, fermandosi di tanto in tanto, sforzandosi di continuare, come se il cerchio, invece di riportarlo al punto di partenza, potesse per una volta condurlo all’uscita. Qualche volta, accade. Verso i tre quarti del film, Zhu Xiaoyan, dimesso, torna in famiglia. Wang Bing lo segue. Ancora più isolato a casa che in ospedale, Zhu si mette a vagare, come si suol dire: come un pazzo, attraverso la campagna devastata da mattoni e cemento, scompare nella notte avanzando a piedi su un’autostrada. Dal corridoio non si esce, abbraccia l’intero paese…

Il tutto, si sa, è il nulla. I pazienti, in ogni ospedale psichiatrico del mondo, non esistono. La loro identità è negata. Non hanno nome. Sono semplicemente dei pazzi. Nel cinema di Wang Bing incontriamo due tipi di personaggi. Quelli che non hanno nome, ma che si raccontano attraverso l’azione e quelli che hanno un nome e agiscono con la parola. Rimbambiti dalle medicine, i pazzi di Wang Bing sono privati proprio della possibilità di raccontarsi. È questo il problema principale che il film affronta e risolve.

Lo strumento con il quale Wang Bing raggiunge questo obiettivo è il tempo. Pensato in termini di situazioni e di senso, il film potrebbe essere rimontato in una versione di 30 minuti. Sarebbe allora una collezione di immagini pornografiche: un uomo che urina, uno che fuma il filtro delle cicche, uno che impreca perché è stato abbandonato, uno che schiaccia mosche immaginarie, uno che abbraccia una donna attraverso una griglia, due che dormono nello stesso letto. [do action=”citazione”]Concentrandosi su cinque o sei personaggi, il film si da il tempo di farli esistere. E offre a noi spettatori il tempo di pulirci gli occhi dai filtri con cui siamo abituati a concepire le immagini.[/do]

Ma Wang Bing non filma delle azioni isolate. Cerca di trasmetterci il linguaggio nel quale ogni personaggio vivendo incarna una storia. Le 4 ore del film scorrono del resto molto velocemente proprio perché la durata è quella di cui lo spettatore ha bisogno per smettere di giudicare e mettersi a guardare. Ecco perché Wang Bing non ce li presenta immediatamente: la legenda con i nomi (e la durata del loro internamento) è un premio che arriva solo dopo che abbiamo avuto modo di familiarizzare con la persona in questione. Dopo un tempo giusto, quello di cui abbiamo bisogno per iniziare ad ascoltarli.

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