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Licini, gli archetipi dall’altana

Licini, gli archetipi dall’altanasvaldi Licini, "Paesaggio fantastico (Il capro)", 1927, collezione privata

A Monte Vidon Corrado, "La regione delle Madri. I paesaggi di Osvaldo Licini", a cura di Daniela Simoni Nella Casa Museo dedicata all'artista marchigiano una mostra che indica come i Monti Sibillini, paesaggio natale, siano il collante di un’opera a torto letta secondo la polarità figurativo/astratto. Un’occasione per capire come la personalissima metabolizzazione di Cézanne abbia dato un centro all'opera di Licini, sia in senso formale che mitologico

Pubblicato circa 4 anni faEdizione del 13 settembre 2020
Massimo RaffaeliMONTE VIDON CORRADO (FERMO)
Osvaldi Licini alla Biennale di Venezia del 1958 in una foto di Ugo Mulas

 

La corona dei monti Sibillini, monti pitturati di azzurro nell’immaginario di Leopardi, assomiglia in realtà a quella che gli antichi dicevano una chiostra, la stessa che per decenni specie nelle giornate ventose amava fissare dall’altana sul tetto di casa sua, in un silenzio costernato, Osvaldo Licini (1894-1958). Una celebre sequenza di foto del suo ultimo periodo lo sorprende nella tipica mise quasi da militante maoista (spettinato, la barba di due giorni, giacca di panno ruvido, fusciacca, calzoni di velluto) sotto un cielo aggettante e come spartito in due, lungo la verticale, dalla sagoma sdutta di un olmo che gli si prospetta alle spalle.
Già idealmente abitato dalle irruzioni epifaniche di una magia decisamente bianca (le Amalassunte, gli Olandesi Volanti, gli Angeli Ribelli che popolano la sua estrema produzione), quel cielo che la foto uniforma nel biancoenero riassume, anzi lo raddoppia alla maniera di una endiadi, l’azzurro virtuale dei monti Sibillini. Perché Licini non si è limitato ad accampare la propria pittura in un luogo e tanto meno a dedurla per via mimetica ma, al contrario, ne ha fatto costante motivo di meditazione: e che quel luogo particolare (la media valle del fiume Tenna, il borgo avìto di poche pietre raggrumate) nella sua opera si trasformi via via, per quote progressive di consapevolezza, in uno spazio percettivo universale e nella cosa-in-sé di una pittura il cui decorso è peraltro costellato di vistosi détour ora lo testimonia la mostra La regione delle Madri. I paesaggi di Osvaldo Licini (fino all’8 dicembre, info: centrostudiosvaldolicini@gmail.com, tel. 3349276790) allestita negli spazi del Centro Studi e della Casa Museo «Osvaldo Licini» a cura di Daniela Simoni, promotrice impareggiabile, che firma il saggio assiale del catalogo (Electa, pp. 239, € 30.000), dove compaiono anche i contributi monografici di Mattia Patti, Stefano Bracalente e Stefano Papetti.
Come ormai da tradizione del Centro Studi, l’allestimento è sobrio ed è per esteso leggibile il gesto interpretativo di una mostra scandita in tre successive stazioni. La prima rinvia ovviamente alla formazione del pittore, la quale fu complessa e tanto ricca di incontri e di apporti da eccedere l’immagine convenuta dell’artista formatosi a Bologna vicino a Morandi e in un’aria di teppismo futurista per trasferirsi in seguito a Parigi, a cavallo della Grande Guerra, e lì acquisire uno sguardo finalmente cosmopolita perfezionando (e i nomi sono quelli risaputi di Modigliani, di Picasso e compagni) il proprio apprendistato di artista d’avanguardia. Le opere attualmente in mostra (90 olii e 33 disegni, in più di un caso tele mai esposte o rare) sfalsano la pacifica linearità della cronologia e dimostrano, al contrario, un legame con il paesaggio primordiale nei termini della densità figurativa che soltanto dopo il 1926 prenderà, e presto drasticamente, a mutare.
Nel Licini ancora giovane, ma non più così giovane, che dipinge le marine fermane e i borghi appollaiati di Montefalcone, di Falerone e di Massa Fermana, siti ancora riscontrabili nell’en plein air, non c’è solo l’ex futurista (ma lo fu più che altro a parole scrivendo i Racconti di Bruto, brutali e scatologici) ma resiste un fermento plurale che potremmo dire di modernismo diffuso con senz’altro striature di Matisse, di Dufy e Derain e talvolta, in certi gialli più piatti e spalmati, persino di un Gauguin.
È probabile che Licini abbia rischiato di restare un eclettico, sia pure di genio, se non avesse potuto meditare e metabolizzare la lezione di colui che chiude l’Ottocento e, pari a un demiurgo, antivede il Novecento quale secolo delle avanguardie, quel Paul Cézanne di cui il pittore marchigiano, giusto nel ’26 e nell’atto di lasciare Parigi, visita la grande mostra che consacra in via definitiva il maestro di Aix. Nel suo notevole contributo in catalogo, Mattia Patti riflette sull’apporto cézanniano e sul fatto che i monti Sibillini, con la loro incombenza ossessiva, fungano da montagna Sainte-Victoire, concludendone: «A un dialogo diretto e forte con Cézanne, insomma, Licini arrivò in una fase già evoluta della propria carriera: non prima ma dopo avere avvicinato e frequentato le avanguardie. Anche rispetto al più illustre e vicino dei suoi giovanili compagni di strada, Giorgio Morandi (…), Licini scelse di abbandonarsi alla lezione cézanniana tardi, dopo attenta meditazione, dopo avere compiuto numerose e diverse esperienze». Ne è riprova un autentico (e rarissimo, quasi mai veduto) capolavoro di proprietà del Comune di Moncalvo, Colline marchigiane, datato 1927 quasi fosse una riprova, il quale ordisce una volumetria di verdi, di grigi e di biacche dove presenze scalene di alberi, di case e di umani/lemuri alludono alla lunga stagione che ha introdotto Licini nel senso comune più o meno da pittore astrattista (etichetta in cui sarebbe a lungo rimasto imprigionato specie dopo la mostra del ’35 al Milione di Milano). Viceversa oggi è chiaro, e nel saggio di Daniela Simoni tutto questo ha evidenza palmare, che nulla di freddamente geometrico hanno le astrazioni liciniane se non per quel tanto che pertiene alla stilizzazione: piuttosto sono segnacoli d’autore, griffes e veri e propri archetipi in cui il paesaggio, senza affatto mutare, viene introiettato e, rimanendo sé medesimo, universalizzato.
Che Parigi non sia trascorsa invano è colto con dovizia filologica da Stefano Bracalente nel saggio dedicato alla biblioteca di Licini, in cui spiccano certo due o tre edizioni ottocentesche di Leopardi ma residuano, annotati con ostinazione, l’Orphée di Cocteau e testi di Georges Bataille concernenti la mitologia e la funzionalità degli archetipi: e si direbbe figlio del Bataille che firma Sur Nietzsche il dipinto davvero capitale che si intitola Il capro, pure del ’27, specchio di una piena signorìa sul paesaggio e attestato di fede dionisiaca che, ad esempio, la grande mostra alla Guggenheim di Venezia, due anni fa, non sottolineava con altrettanta precisione. Perciò adesso è più agevole pensare come il terzo tempo di Licini, il suo dopoguerra troppo breve, sia nient’altro se non il campo magnetico di archetipi che tradiscono la propria sottaciuta umanità assumendo sembianze vagamente antropomorfe: non per caso, nel piano interrato di Casa Licini campeggia in tutta la sua iattanza un Angelo Ribelle del ’53 cui il pittore si è permesso di apporre sul petto la meraviglia pop di un cuore rosso scarlatto: «Che cosa ci porta – scrive Simoni – questo Angelo? Il suo cuore collocato finalmente al proprio posto, dopo essere passato dalla mano di Bruto a quella di Amalassunta. L’atmosfera è resa ancor più enigmatica dalla lunga coda che si libra nell’aria come una stella filante fin fuori dello spazio pittorico». E in una lettera dell’aprile ’58 a Corrado Levi il maestro, in punto di morte, scrive di andare svolazzando nei cieli della fantasia e di essere divenuto un angelo abbastanza ribelle.
Del resto ogni viaggio alle Madri è sia il ricordo di una iniziazione sia la conferma di una fatale agnizione: il suo amico Pablo Picasso, da esule a vita, era dovuto scendere nella grotta di Altamira per rinvenire i propri archetipi, mentre a Osvaldo Licini, dall’altana di Monte Vidon Corrado, ormai bastava alzare gli occhi al cielo, oltre i monti della Sibilla, per scrutare ciò che da sempre animava la sua vita.

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