Liceo classico, liquidare o riformare? La confusione è grande
Liceo classico FEDERICO CONDELLO, «LA SCUOLA GIUSTA. IN DIFESA DEL LICEO CLASSICO», MONDADORI
Liceo classico FEDERICO CONDELLO, «LA SCUOLA GIUSTA. IN DIFESA DEL LICEO CLASSICO», MONDADORI
Le discussioni sul problema del liceo classico si son fatte numerose. Molte le terapie proposte, e non tutte indirizzate alla guarigione del «paziente», sballottato tra liquidazioni frettolose e apologie commosse. Su tutto fa chiarezza Federico Condello, filologo dell’Università di Bologna, con La scuola giusta In difesa del liceo classico (Mondadori, pp. 272, € 18,00): un libro serio, denso, documentato, quindi utile, perché non contiene grandi frasi sui classici, ma dati e riflessioni. Questo il punto di partenza: «chi intende liquidare il liceo classico deve sapere (…) che cosa rischiamo di perdere; chi intende riformarlo deve avere alternative credibili; chi ne diffida a priori, come chi a priori lo idolatra, deve chiedersi perché».
Questa nettezza è importante. Sul classico pesano pregiudizi: con scrupolo, ma senza pedanteria, Condello li esamina e ne svela la fallacia. Per esempio, che la scuola del greco e del latino nacque con Gentile: non è così, perché deriva semmai da interventi attuati già dopo l’unità. Sicché identificare il classico con una fase storica è operazione ideologica e mal fondata, tanto più che Gentile voleva ridurre il numero di studenti nei licei classici (ma le cose non andarono come egli voleva). Su simili errori s’appoggiano molti critici del classico (chiamato così per distinguerlo da altri tipi di liceo). Eppure i suoi difensori sono tuttora molto numero, e certo tanta unanimità insospettisce. Il classico pare proprio un oggetto speciale, che sa generare dibattiti e suscitare reazioni opposte: si strilla che va eliminato perché «è sempre uguale», si vorrebbe rifarlo com’era, perché «non è più lo stesso». Largamente inverosimile è la retorica di chi ritiene il liceo del greco e del latino una scuola «immobile», incapace di adattarsi ai tempi. Infatti questo è un altro mito: almeno a partire dalla Carta della scuola di Bottai (1939) il classico e la scuola italiana sono stati investiti da una valanga di ritocchi, riordini, e contrordini, più frenetici negli ultimi anni. Talvolta è finita in nulla: la riforma di Biggini fu travolta nel 1945 dal crollo della R.S.I., quella di Renzi sta per soccombere a un altro crollo. Ma la confusione è grande.
In riferimento al liceo classico, Condello mostra come sconclusionati interventi ne abbiano disassato l’equilibrio interno: e non per colpa del destino «cinico e baro» o della sorte, ma per scelte politiche precise. La «riforma» Gelmini, ora pudicamente detta «riordino», ha emarginato la componente scientifica, dando vita a un «inverosimile liceo classico per classicisti». Un ritocco in apparenza innocuo (e raccontato come «potenziamento») sta rendendo il classico una scuola di nicchia, che risulta sempre meno appetibile in vista dell’università. La soluzione finale verrà infatti dal calo delle iscrizioni, unico criterio di giudizio nell’epoca del «misurabile»: se un «prodotto» non va, è inevitabile ritirarlo dal «mercato» per scarsa richiesta. Il libro analizza seriamente i dati: ne risulta che «il classico ha perso il suo prestigio presso i ceti che più costantemente lo hanno alimentato». Questa è una diagnosi sociale e culturale importante, per un fenomeno che parte da lontano. Ai sedicenni protagonisti in un romanzo di De Carlo (Due di due) il liceo appare nel 1968 come «una vecchissima drogheria» dove si lavora di mala voglia non capendo che «la clientela originaria è tutta estinta».
Riluttanza alla modernità
La serie delle accuse è lunga: da quella, rivoltagli da un indimenticato ministro, per cui il classico non educa gli studenti alla «manualità» (!), a quella per cui li distoglie dalla cultura scientifica (!). Dunque i peggiori difetti della formazione italiana: come ignorando che il classico rappresenta una nicchia, e che oggi i leader li prepara la rete, o il Grande fratello, con palese vantaggio della polis. E infatti molti han cercato di correggere questo patologico simbolo di riluttanza alla modernità. Sotto tiro sono finiti, anche con argomentazioni rispettabili, temi come la «grammatica» o il «nozionismo», rimpiazzati da nuovi orizzonti e contenuti. Una generale liquidazione dello storicismo, con l’obiettivo, si direbbe, di ottenere una frattura culturale definitiva. Nozioni e difficoltà però appaiono inutili, anzi letali, solo al classico: solo in questo caso la difficoltà sarebbe inutile, giacché non risultano richieste di rendere lievi o piacevoli la botanica, la chimica o le derivate (però appassionanti problemi sulle mattonelle spuntano ormai tra le prove di matematica).
Secondo le rilevazioni sui percorsi post-diploma, gli studenti del classico ottengono risultati importanti non solo in area umanistica. Ma questo non prova abbastanza l’efficacia del percorso: anzi, il «pesante» classico deve cambiare, acquisire «leggerezza». Il tormento della scuola, dall’agonia delle medie al cantiere perenne delle superiori, ha causato, complici altri mutamenti, una perdita di senso difficile da sanare. Per il classico sembra prossima una sorte tipicamente italiana, che Leopardi espresse con parole tratte da una (non memorabile) ode di Orazio: «Virtù viva spregiam, lodiamo estinta».
Il dibattito è vivacissimo soprattutto sul tema della traduzione dal greco e dal latino, oggetto di interventi anche di Condello. Qui sta la linea di «difesa» del liceo: ma la tenuta è incerta. Al termine degli studi viene proposta anche una prova di traduzione, alternando greco e latino. Gli esiti sono spesso deludenti. Di qui l’argomento per abolire (pardon, trasformare) un esercizio giudicato inutile, faticoso, difficile, superato. L’Aristotele poco amichevole dell’Esame di Stato 2018 sembra scelto apposta per confermare queste critiche. Per Condello invece la traduzione è un elemento irrinunciabile, e il lamento sull’incapacità di «tradurre» non conta, giacché lo si ode da quando esistono le scuole classiche. La traduzione è in sé «destinata agli abilissimi». Il fatto che pochi riescano a affrontarla compiutamente non è decisivo: forse che quanti studiano una lingua moderna saprebbero tutti tradurre un testo filosofico mai veduto prima, di qualunque autore (Kant, Popper, Sartre)?
È comunque un bene proporre agli studenti una simile complessità. Eliminarla, per Condello, e con essa ridimensionare lo studio della lingua, cancellerebbe un modello di prassi «trasversale», lasciando alla scuola classica solo un «esangue belletrismo». Non buona gli appare l’idea di integrare le prove con percorsi di «civiltà», della quale sarebbe difficile definire i prerequisiti. Senza nozioni estese di filologia, storia, antropologia e altro, gli studenti potrebbero solo scrivere pensieri generici di commento al testo. Ché anzi nella scuola odierna, in cui qualunque cosa conta più dell’attività in classe, il tempo disponibile per insegnare, approfondire, imparare operazioni complesse si sta riducendo drasticamente. Anche iniziative quali l’alternanza scuola-lavoro impediscono un lavoro adeguato, e lasciano spazio solo a frettolosi e inutili «percorsi» o a fumose «competenze». Da dove dovrebbe venire, in tanta progettata banalità, la creatività di uno sguardo divergente, che si finge di richiedere ai «giovani»? Di fatto, l’irruzione di nuove pratiche sta cancellando «un patrimonio di metodi, di tradizioni didattiche, di prassi intellettuali».
Regressione da evitare
Chi parla di «ridimensionare» la traduzione per «alleggerire» gli studi si cela dietro eufemismi; chi valorizza la «inutilità» degli studi aiuta quanti vogliono rendere la scuola classica più facile (con gioia dell’utenza), ma anche «letteraria» e quindi elitaria. Si tratta di una regressione da evitare: è bene che il classico resti un luogo che «lascia libero chi lo sceglie di maturare per strada la sue preferenze», praticando una formazione culturale lenta, con saperi specialistici. Dopo recenti interventi, è in crisi anche il ruolo sociale del classico come esperienza di «democrazia formativa e culturale», dove lo studio dei classici, destinato prima ai pochi, è stato proposto in modo inclusivo, da un’istruzione pubblica e laica, con funzione di «ascensore sociale». Quando il classico aveva molti iscritti, negli anni settanta e ottanta del secolo scorso, non si trattava solo di tradizione familiare, ma di una opportunità di cultura richiesta da nuovi ceti. E oggi? I disegni futuri della scuola italiana sono imperscrutabili. Condello mostra fiducia negli e nelle insegnanti, ma non in politici, pedagogisti, ministeriali. Spetta però a loro decidere se andare verso la piccola scuola dei pochi, o verso una ben fatta scuola dei tanti. È vero che il liceo classico «può costituire ancora un efficace strumento di equità culturale e sociale». Purché questo obiettivo non sia ormai un lusso che non ci si può (o vuole) più permettere.
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