«Licenziati perché avevano la tessera della Fiom»
Tribunale del Lavoro di Bologna Due pakistani «discriminati» Marzabotto: lavorate solo se non vi iscrivete più. Ordinata la reintegra e il pagamento degli stipendi arretrati
Tribunale del Lavoro di Bologna Due pakistani «discriminati» Marzabotto: lavorate solo se non vi iscrivete più. Ordinata la reintegra e il pagamento degli stipendi arretrati
Nella Bologna dove la sindacalizzazione è ancora altissima e le relazioni aziendali sono all’avanguardia succede anche che ci sia un’impresa che licenzia un delegato e un lavoratore a causa della tessera della Fiom che portano in tasca. L’effetto Jobs act nella rossa Emilia la scorsa primavera provocò un’escalation di licenziamenti di delegati sindacali a cui ora per fortuna la giustizia (proletaria, verrebbe da dire) ha iniziato a porre rimedio.
La Dismeco è un’azienda di Marzabotto che smonta elettrodomestici e componenti elettronici. Impiega 32 lavoratori, quasi tutti pakistani. «Sono entrato nel 2009 e nel 2013 ho avuto il contratto a tempo indeterminato», racconta il 26enne Khurram. È lui il primo ad entrare in contatto con il sindacato: «Noi eravamo capaci di leggere la busta paga e grazie alla Fiom abbiamo scoperto che ci pagavano meno giorni di quanti ne lavoravamo». Khurram diventa delegato Fiom ma il «al padrone la cosa non piace». Parte una procedura di cassa integrazione molto particolare: «se hai la tessera Fiom non lavori, ma se rinunci ti richiamano subito», ha testimoniato un lavoratore. Poi arriva il colpo di scena. Prima una procedura di licenziamento collettivo per 5 persone «per crisi del settore» e poi il 12 aprile 2017 il licenziamento di due sole persone: Khurram e suo fratello Gukfam (24 anni), altro iscritto Fiom.
«Per me è stato un vero dramma – spiega Khurram – ho due bimbi piccoli e rimanere senza stipendio è stata molto dura», racconta da Vergato – altro paese dell’appennino bolognese in cui vive. La Fiom si muove subito e i tempi ragionevoli della giustizia al tribunale di Bologna vengono in soccorso. Gli avvocati Stefania Mangione e Alberto Piccinini chiedono subito il reintegro per licenziamento discriminatorio. La difesa dell’azienda si basa su tre testimonianze, sostenendo che i due fratelli lavorano «in un reparto soppresso» e «che non potevano essere sostituiti». In realtà le testimonianze degli altri lavoratori rendono «inconsistenti le motivazioni» dell’azienda. «A testimoniare è venuto il fratello del titolare, un ingegnere che in azienda abbiamo visto poche volte e un pakistano che si è fatto convincere», sottolinea Khurram.
Dopo aver ascoltato otto testimoni il 18 dicembre il giudice Carlo Sorgi ha disposto la reintegrazione sul posto di lavoro di Khurram e Gukfam considerando discriminatori per ragioni sindacali i licenziamenti.
«È una vicenda molto particolare – spiega l’avvocato Alberto Piccinini, storico avvocato della Fiom – perché si tratta di un’azienda fatta quasi totalmente da addetti pakistani e dove il sindacato non era entrato. La discriminazione per ragioni sindacali non è mai facile da dimostrare, ma questa volta gli elementi erano lampanti: intimare di togliere l’iscrizione alla Fiom per poter lavorare è veramente troppo».
Ora Khurram e Gufkam dovranno essere reintegrati. «Ci auguriamo che l’azienda saldi presto gli stipendi arretrati e non li tenga a casa con lo stipendio pagato come ha fatto la Fiat con gli operai di Melfi (altra causa vinta da Piccinini, ndr) anche se questo vorrebbe dire che non hanno i problemi economici che sostenevano di avere».
«Siamo molto soddisfatti di questa sentenza – commenta il neo segretario della Fiom di Bologna Michele Bulgarelli – . La situazione locale è a due velocità: da una parte con le multinazionali come Ducati o Lamborghini riusciamo a chiudere contratti aziendali all’avanguardia; dall’altra ci sono piccole ditte in cui invece il sindacato è ancora visto come il nemico. Questa ordinanza – continua Bulgarelli – è un monito per la politica, perché dimostra che il diritto ad essere reintegrati attiene innanzitutto alla dignità delle persone. È una ordinanza che parla anche al sistema delle imprese: queste aziende non possono avere cittadinanza in un territorio, come Bologna, che ha nella qualità delle relazioni un tratto distintivo», conclude Bulgarelli.
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