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Licenziamenti, lo stop alle leggi greche parla all’Italia

Lussemburgo La norma giudicata contraria alle regole del mercato unico

Pubblicato quasi 8 anni faEdizione del 28 dicembre 2016

Neppure il rischio ormai concreto di disgregazione dell’Unione europea sembra in grado di ricondurre le sue istituzioni alla ragione. Stavolta è la Corte di giustizia ad affondare un altro colpo a quel che resta del “modello sociale europeo”, dopo anni di politiche di austerità, con una sentenza che rischia di alimentare la disaffezione dei cittadini europei verso l’Unione. La vittima del caso è ancora una volta la martoriata Grecia, la cui legislazione in materia di licenziamenti collettivi è stata giudicata contraria alle regole del mercato unico. Ma i principi enunciati dalla Corte europea nella sentenza Aget Iraklis del 21 dicembre hanno una portata che va al di là del caso specifico e proiettano la loro ombra su qualsiasi normativa nazionale che limiti il potere delle imprese di licenziare.

Il peccato imperdonabile del legislatore greco consiste nell’aver sottoposto la decisione delle imprese di procedere a riduzioni di personale ad una procedura che, in caso di mancato accordo con i sindacati, permette all’autorità pubblica di impedire i licenziamenti qualora le condizioni del mercato del lavoro e la situazione dell’impresa non li giustifichino. In sostanza, nulla di straordinario rispetto ai principi che, dal dopoguerra ad oggi, in tutti i paesi europei regolano la materia dei licenziamenti per motivi economici; legittimi, appunto, solo se le ragioni addotte dall’azienda sono serie e accertabili da un’autorità terza.

Un simile vincolo però non è andato a genio alla Aget Iraklis, società controllata dal gruppo multinazionale francese Lafarge che, quando ha deciso di chiudere uno dei suoi stabilimenti senza riassorbire altrove il personale, è incappata nel divieto di legge. La questione è giunta così davanti ai giudici europei per i quali non è la multinazionale a doversi adeguare alla legge ma la legge che deve essere cambiata, perché lesiva della sua libertà di stabilirsi ed investire in Grecia. In particolare, troppo vaghi sono stati ritenuti i criteri in base ai quali le autorità greche possono bloccare i licenziamenti e troppo ampia di conseguenza la loro discrezionalità nell’adottare una decisione in merito. Ciò perché le imprese hanno il “diritto” di conoscere in anticipo a quali condizioni possono licenziare: pena uno stato d’incertezza incompatibile con il «buon funzionamento» del mercato.

Ad avvalorare queste conclusioni (ironia della sorte) è servita anche la Carta dei diritti dell’Ue, spesso invocata “da sinistra” come prova dell’anima sociale e democratica dell’Unione. Peccato che in quella Carta, accanto ai diritti dei lavoratori debolmente enunciati, sia assurta al rango di diritto fondamentale anche la libertà d’impresa, in termini ignoti alla nostra Costituzione. Da ciò la possibilità di invocarla davanti al supremo giudice di stanza a Lussemburgo qualora la legislazione del lavoro di uno Stato membro si spinga troppo in là nella tutela dell’occupazione e dei diritti dei lavoratori.

La sentenza ha un enorme rilievo per la Grecia, alle prese con un braccio di ferro con i propri creditori che da tempo chiedono un allentamento della normativa sui licenziamenti. Braccio di ferro destinato a continuare, almeno a giudicare dalle prime reazioni del governo greco intenzionato a modificare la normativa esistente seguendo le indicazioni della Corte, senza però rinunciare al potere di bloccare i licenziamenti.

Ma il potenziale impatto della sentenza non riguarda evidentemente solo la Grecia. Tra qualche mese il popolo italiano potrebbe avere la possibilità di ripristinare l’art.18 dello Statuto dei lavoratori, nella sua più garantista forma originaria. C’è da chiedersi cosa succederà se qualcuno deciderà di contestarne la legittimità davanti alla Corte di giustizia. Spetterà ad un giudice olandese, maltese o lettone, nominato ad insindacabile giudizio del proprio governo, decidere il destino di una norma conquistata grazie alle lotte politiche e sindacali di intere generazioni di italiani? C’è forse un modo migliore per alimentare la deriva nazionalista e anti-europeista di quel che fu la base sociale della sinistra?

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