Un bel tema: quali spinte ideali, stimoli culturali, esempi personali, portarono dei giovani educati nel fascismo a lottare, anche in armi, contro il potere fascio-nazista, tra il 1943 e il 1945? Ipotesi di lavoro: attiva «fucina» di antifascismo fu il classico, il liceo per eccellenza della scuola gentiliana. La combinazione tra greco, latino e filosofia fu dunque decisiva per far scegliere la Resistenza? La scuola che poteva sembrare la più marcata dalla prospettiva fascista ottenne risultati opposti alle attese?
Katia Massara lo crede, e lo studia in Virgilio va in montagna I licei classici nella Resistenza (Carocci editore, pp. 246, € 26,00), esaminando vari istituti in Veneto, Piemonte, Lombardia, Toscana, Roma (non Lazio), e altri in ordine sparso (Savona Avezzano Napoli Pescara). Nonostante l’entusiasmo con cui viene proposta la tesi, l’idea che i classici abbiano spinto all’antifascismo non pare dimostrabile. Non perché essi portassero invece alla fede nella romanità fascista, ma perché il classicismo è ambivalente lievito di pensiero conservatore e di spinta risorgimentale, capace di legare al regime come di sollecitare una coscienza antifascista. Secondo Massimo Mila, il suo liceo allevò «tanti piccoli Bruti», attivi e spinti (anche) da astratti furori: ma vi furono invece giovani che il classico spinse verso la R.S.I., come accadde ai giovani tedeschi indottrinati dal Gymnasion? E quanti furono? Il libro non ne parla. E ancora: i nemici del regime (o della R.S.I.) erano classicisti antifascisti, o antifascisti classicisti? Domanda non posta.
La definizione stessa dell’oggetto resta nel libro incerta: «montagna» significa lotta armata dopo il settembre 1943, ma spesso si indagano episodi di molto precedenti, o persone che non furono poi partigiane. Il titolo, nato da una suggestione di Emilio Sereni, è brillante, ma non fu per via di Eurialo e Niso o di Virgilio che i giovani lottarono contro il fascismo: i filosofi furono forse più decisivi dei latinisti. La rassegna dei licei, poi, è lacunosa: mancano sedi importanti, mancano le aree annesse al Reich dopo il ’43 (Trento, Bolzano, Belluno, Udine, Gorizia, Trieste, l’Istria). Dunque quei licei e quelle aree omesse non guidarono all’antifascismo? Perché non trattarne? E comunque, per i casi di studio serviva inquadrare i contesti, di città e di istituto. Impresa complessa, certo, svolta qui in forma parziale. In tal modo, il carattere antifascista delle lezioni o le scelte di professori e studenti verso la lotta armata restano più attestate che motivate: così, fare la storia delle scuole implica il rischio di scrivere invece agiografia, cronaca, aneddotica, memorialistica.
Vi sono, beninteso, pochi casi celebri (e non nuovi), come il D’Azeglio a Torino. Per Augusto Monti, esso «fu bene una fucina di antifascisti… non per colpa o merito di questo o quell’insegnante, ma così, per effetto dell’aria, del suolo, dell’ambiente torinese e piemontese». Il passo, citato ma non discusso, esprime un understatement subalpino o un giudizio? Anche Giancarlo Pajetta ridimensionò il mito del D’Azeglio, forse per lui scuola non abbastanza antifascista. Erano forse più determinanti i contesti che i licei, i libri più che i professori? Difficile dirlo, perché molti elementi qui non vengono considerati. Per valutare il rapporto tra i licei e la Resistenza, si sarebbero dovuti indagare i modi in cui i presidi, quasi da funzionari di partito, gestirono gli anni del consenso e della guerra, e poi la situazione derivata della R.S.I.; come essi parlarono a studenti e docenti dei bombardamenti e delle difficoltà della scuola; come discussero eventi quali, per esempio, l’attentato a Gentile.
Il libro si appoggia largamente alla memorialistica. In effetti vari istituti hanno coltivato la memoria resistenziale, in forme spesso interessanti: al padovano Tito Livio una lapide latina gareggia con quelle dettate da Marchesi per l’Università, commemorando gli antifascisti caduti. Ma i ritratti delle scuole e dei protagonisti desunti da pubblicazioni e siti della memoria resistente possono mostrare qualche spinta a valorizzare, a distanza di anni, il meglio che c’era, facendo anche di attitudini a-fasciste delle efficaci azioni antifasciste. Utile sarebbe stato confrontare le testimonianze, rese a decenni dai fatti e talora con importanti divergenze nel ricostruire posizioni e idee, con documenti coevi: ma non sono adibiti archivi o verbali. Da meditare infatti un giudizio di Pasolini (verso il 1971, a proposito di Longhi): «si capisce soltanto dopo chi è stato il vero maestro».
Quindi l’effetto di Virgilio si vide soprattutto dopo la scuola? Le memorie sono affare complesso. Se dal vicentino Pigafetta uscirono Dal Pra, Neri Pozza, Meneghello e Giuriolo, non pare sufficiente dire che «sono stati tutti partigiani». Prima di salire in montagna insieme ai Piccoli maestri, Meneghello udì le lezioni padovane dei Fiori italiani, e prima ancora partecipò ai Littoriali bolognesi del 1940, vincendo il concorso di dottrina fascista. Il suo percorso, non lineare e comune a tanti, meritava una riflessione meno schematica, con l’aiuto di importanti studi. In una bibliografia pur ampia, ci sono infatti strane assenze (per esempio, il libro di Mario Isnenghi sul Foscarini di Venezia, Il Poligrafo 2005). Dove la ricerca si appoggia a lavori che hanno storicizzato la vita delle scuole (Berchet e Carducci a Milano, Tasso a Roma), il ragionamento è meglio argomentato. Ma non compiuto: evocato il caso di un supplente che lasciò il Carducci a causa delle leggi razziali, non se ne fornisce il nome, non si indagano le vicende successive. Il Galvani di Bologna, e gli atteggiamenti di Pasolini liceale e universitario, sono stati studiati in lavori non messi a frutto qui.
Oltre alle sviste redazionali (dati ripetuti, anche a poche righe di distanza, o riferiti in ordine confuso), si trovano molte inesattezze di dettaglio. In Veneto non esiste alcuna località San Donato; il regista non si chiamava René Claire; l’altopiano d’Asiago è paragonato da Meneghello alla Tebaide egiziana, non al poema epico di Stazio; Giovinezza non divenne mai ufficialmente inno nazionale; la storica che ha studiato il podestà ferrarese Ravenna non si chiama Cavan, ma Pavan (insegna in una certa «Scuola» di Pisa). Inaccurata consultazione di fonti porta a scrivere che Franco Antonicelli s’iscrisse al D’Azeglio nel 1908, dunque a sei anni, mentre la notizia che Alba «durante la Seconda guerra mondiale diventerà una repubblica indipendente» echeggia in modo preoccupante la voce «Alba» di un noto sito online, solitamente non usato nella ricerca storica. Di là vengono pure la definizione di Paolo Sarpi «teologo e scienziato» che stupirà chi ama l’Istoria del Concilio tridentino, e la scheda su Aldo Braibanti, che si dilunga su note ma poco pertinenti vicende. Non facile ritenere che Renata Viganò (classe 1900) abbia nutrito il proprio antifascismo nella scuola che lasciò nel 1919.
Anche la scrittura non è sempre esemplare. Così sugli studenti romani: «Secondo Giorgio Caputo, la loro Resistenza, a lungo ignorata dalla storiografia, che si concentrò quasi esclusivamente su quella armata, iniziò infatti, a differenza di quanto non avvenne, salvo episodi isolati, nel resto del paese, molto prima dell’8 settembre e fu anzi il movimento ‘più virale e organizzato che esistesse a Roma’». Vari aspetti dell’indagine e della stesura impongono di utilizzare con cautela quanto pur di utile il libro presenta.