Visioni

Licantropo, mon amour. Alle radici del mito

Licantropo, mon amour. Alle radici del mitoLon Chaney Jr in una scena di «L’uomo lupo» di Curt Siodmak (1941)

Ultracorpi Nel libro «Guardatevi dalla luna» di Stefano Leonforte, l’uomo lupo raccontato sul grande schermo. Un viaggio nelle pellicole mannare: dal capolavoro di Curt Siodmak agli omaggi di Joe Dante e John Landis

Pubblicato quasi 5 anni faEdizione del 17 gennaio 2020

Per Woody Allen, la battuta è riportata nella raccolta di suoi articoli Getting even, la procacità di una fanciulla può essere provocante a sufficienza da indurre la licantropia in un boy scout. Allen nella sua lunga filmografia non si è mai occupato di lupi mannari, anche se il tema ha – nei suoi albori cinematografici e letterari – alcuni importanti collegamenti con il mondo ebraico. Se Allen, battute a parte, non ha praticato il genere, in compenso esistono molti altri registi che si sono dedicati ai warewolfe movie e sono oltre trecento i titoli in cui il tema è centrale o comunque trattato, anche se a margine. Esempio del secondo caso, Harry Potter e il prigioniero di Azkaban di Alfonso Cuaron, il terzo della saga, dove Remus Lupin (come spesso accade nella Rowling il nome del personaggio è palese omaggio alla classicità) è lupo mannaro: ed è la solita saputella Hermione a spiegarci la differenza tra questo stato e quello di animagus; distinzione che rispecchia quella tra mannari e licantropi: nel lupus hominarius (mangiatore di uomini) o nei lupi homines la trasformazione è una dannazione che arriva per fattori esterni ed è vissuta senza consapevolezza (Lupin non ricorda che ha combinato da lupo) mentre per il licantropo (lukos/lupo+antropos/essere umano) la metamorfosi avviene anche a comando ed è legata alla nascita, all’ereditarietà, come una tara. Stefano Leonforte, studioso di cinema fantastico dal nome da animagus e già autore di A qualcuno piace horror per i tipi di Leima, ha preso in esame il mito del più cattivo che c’è nella storia del cinema dalle origini ai giorni nostri con un poderoso saggio che nel titolo omaggia Landis e il suo mannaro americano (a Londra): Guardatevi dalla luna sempre edito da Leima.

IL VIAGGIO di Leonforte si sviluppa dai miti fondativi della bestia e dal parallelo col suo congiunto mostruoso più vicino, Dracula il Vampiro che vanta un pedigree letterario inarrivabile da Polidori fino a Stoker e più tentativi di imitazione della Settimana Enigmistica. Li accomuna mordacità di zanne, sete di sangue, ma il Conte è tale, aristocratico, glabro e azzimato là dove l’Uomo Lupo è scomposto, ferino nelle sembianze e nei comportamenti, iconograficamente vestito solo della sua pelliccia, al massimo di indumenti proletari stracciati nella metamorfosi violenta come una venuta al mondo. Pantaloni a brandelli come Hulk, mostro a cui è assimilato oltre che a Mr Hyde, un’esplosione di ego trattenuto che lo fa vicino a Narciso.

SE IL VAMPIRO è un morto (che ritorna, ma sempre morto) il versipelle (così chiamato per l’antica credenza che al licantropo il pelo cresca all’interno del corpo e al momento topico ribalti la pelle, come in un capo reversibile) è anche troppo vivo e lotta insieme a noi, aggirandosi en travestì: altro geniale parallelo cinematografico di Leonforte è quello tra il Lupo e il feroce Norman Bates di Psycho che in effetti, sotto le vesti della sua mamma, capelli crocchia e gonnellone, non fa forse il verso al ridicolo lupo che pretende di essere nonnina con la cuffia da notte e gli occhiali sul naso? Eppure il lupo che torniamo ad essere quando decidiamo di farci una passeggiata alla luce del sole, o della luna, per il nostro wild side, affonda le sue radici nella luce (così l’etimo di lukos) e nella sacralità: lupo era il dio egizio Anubi, lupo l’animale totemico per i nativi americani. E mannaro diventa il bambino nato la notte di Natale, quando il mistero è vicino, si schiudono le porte tra il mondo dei morti e quello dei vivi (A Christmas carol lo spiega bene).

MANCANDO un’opera seminale in letteratura per il lupo, Leonforte spiega come sia il cinema ad avergli dato fondazione mitica con L’Uomo Lupo di Curt Siodmak, scrittore e sceneggiatore ebreo tedesco fuggito oltre oceano all’avvento del nazismo. Siodmak ha fatto del protagonista lupigno Larry Talbot il ricettacolo di tutto il suo dolore di perseguitato e lo ha dotato di un corredo di colte suggestioni ebraiche e un immaginario di dogmi quali la cicatrice che richiama la stella di David, l’argento per porre fine allo strazio del warewolf (poi forgiato in pallottola capace di finire la bestia purché sparata da chi la ami abbastanza per comprenderla), la notte e la luna – non necessariamente piena.

IL TESTO ANALIZZA considerandole per decenni tutte le pellicole mannare (riportando anche un interessante corredo di note censura), da un corto di ambientazione navajo del 1913 alle ultime derive, con indegno remake Wolfman di Johnston, degli anni Dieci del 2000. In mezzo le pietre miliari anni Ottanta, formidabili per i lupi, L’ululato di Joe Dante, Un Lupo mannaro americano a Londra di John Landis fresco di Blues Brothers,Unico indizio la luna piena di Daniel Attias da racconto di King, In compagnia dei lupi di Neil Jordan da Angela Carter, co sceneggiatrice. Una compagnia, mannari o licantropi che siano, dannatamente intrigante.

ABBONAMENTI

Passa dalla parte del torto.

Sostieni l’informazione libera e senza padroni.
Leggi senza limiti il manifesto su sito e app in anteprima dalla mezzanotte. E tutti i servizi della membership sono inclusi.

I consigli di mema

Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento