Arriverà, si spera, il giorno in cui gli organizzatori dei festival letterari capiranno che non è più il caso di invitare gli scrittori, o perlomeno, non solo loro. La formula – diciamo la verità – si è logorata col tempo, i nomi tendono a ripetersi e tra le scrittrici e gli scrittori pochi hanno doti di performer. Ma soprattutto, quello che gli autori avevano da dire, l’hanno detto (si spera) nei loro libri, e dunque fra le pagine va cercato – oltretutto con un vantaggio economico per il settore, che secondo dati recenti è in affanno.

NON PER QUESTO, però, i festival, da oltre vent’anni simbolo delle nostre estati come il cono gelato, si troveranno a corto di partecipanti: senza andare lontano, c’è una categoria che reclama il quarto d’ora di celebrità promesso da Andy Warhol all’umanità intera. Parliamo degli editori, ovviamente, e di tutti quelli che lavorano dentro o per una casa editrice. Alcuni, in effetti, già hanno scritto libri sulle loro esperienze (diventando così autori pronti per andare ai festival), ma si tratta di una minoranza, mentre le storie in attesa di essere raccontate sono migliaia.

Lo dimostra un saggio uscito da Einaudi, L’Italia dei libri (pp. 272, euro 18.50), il cui autore, Tommaso Munari, dopo un paio di titoli dedicati proprio allo Struzzo, ha allargato il raggio della sua ricerca e ha tracciato «un’affascinante e insolita storia d’Italia attraverso le vicende di dieci illustri editori». Così recita lo strillo in copertina, e per una volta non è una bugia.

Per la verità, le case editrici di cui scrive Munari sono ben più di dieci, perché i racconti si intrecciano, e non si può parlare di un marchio senza che ne emergano tanti altri. Ed è naturale che sia così: presa nel suo complesso, la produzione editoriale italiana (come quella globale, del resto) forma un mosaico, nel quale i singoli titoli, le collane, le redazioni, le sigle, sono collegati fra loro come altrettanti tasselli, e compongono uno specchio del mondo in cui si inseriscono. Uno specchio, e spesso un motore.

A COLPIRE NELLO STUDIO di Munari è infatti la capacità dei libri, non solo di accompagnare le evoluzioni della società italiana, ma in molti casi di precederle, di farsene traino. E questo, già prima che l’Italia diventi uno stato: che peso hanno avuto, per esempio, nella formazione dei futuri protagonisti del Risorgimento i volumi della Biblioteca storica di tutte le nazioni (Machiavelli, Pietro Giannone e Carlo Botta, fra gli autori) avviata a Milano nel 1819? Scrive Munari: «Alla modica cifra di mezzo centesimo a pagina Bettoni mise in circolazione decine di classici della storiografia con una media di 2500 copie a volume. Numeri che attestano un consenso di pubblico per l’epoca più che ragguardevole». Per quell’epoca sicuramente e forse, aggiungiamo noi, anche per la nostra, all’apparenza molto più alfabetizzata.

E a proposito di alfabetizzazione, quanto sono stati di stimolo per la pratica della lingua italiana – allora minoritaria rispetto ai dialetti – i grandi bestseller a cavallo tra fine Ottocento e inizio Novecento? L’elenco è lungo, e va da Dumas a Sue, da Carolina Invernizio a Salgari, da Collodi a Ida Baccini e naturalmente all’eccellentissimo Artusi. La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene – che, ricordiamolo, fu inizialmente autopubblicato dal suo autore, più lungimirante degli editori cui si era rivolto – entrò in decine di migliaia di case e insegnò non solo tante ricette, ma un lessico vivo e preciso, invece della «lingua più che barbara degli altri trattati consimili», come la definì polemicamente lo stesso Artusi a un amico. Altrettanto polemicamente, sia pure tra parentesi (una fra le molte che felicemente punteggiano L’Italia dei libri) Munari si chiede cosa sia rimasto di quel magistero linguistico al tempo degli «impiattamenti» e delle creazioni culinarie «golose» e «intriganti».

Il confronto con il passato si rivela in effetti spesso impietoso. O più precisamente, ci dimostra quanto i libri siano meno centrali nella cultura contemporanea rispetto a quanto accadeva cinquanta o settant’anni fa, al di là di singoli casi, che quasi sempre si rivelano fuochi di paglia. Impossibile trovare oggi sigle editoriali o collane che abbiano un impatto sulla società simile a quello della Laterza orchestrata da Benedetto Croce, delle varie «Biblioteche» Einaudi, della Universale Economica Feltrinelli.

NON A CASO il saggio di Munari si conclude con una considerazione che, prendendo spunto dal catalogo Sellerio, mette in luce come pochi editori abbiano resistito alla «proliferazione del giallo, come del rosa»: «Si pensi, per fare un solo esempio, alla collana di narrativa contemporanea dell’Adelphi ‘Fabula’ che, tenuta a battesimo da Milan Kundera (L’insostenibile leggerezza dell’essere, 1985) è oggi presidiata dalle avventure di 007 di Ian Fleming e da quelle di Philip Marlowe di Raymond Chandler».

D’altra parte, (ancora Munari) il processo è «in atto, e del presente non si può fare storia». Né, aggiungiamo, si può lottare contro lo Zeitgeist. E tuttavia conoscerlo e analizzarlo è necessario, se si vuole pensare che sia possibile imporre correttivi più o meno grandi all’inesorabilità del tempo in cui si è immersi. In questa prospettiva la lettura dell’Italia dei libri si accompagna utilmente a quella di tre testi recenti che, proprio perché diversi fra loro, aiutano a capire di cosa parliamo oggi quando parliamo di libri e di editoria.

Già il titolo del primo, Operazione bestseller (Ponte alle Grazie, pp. 339, euro 19.90), indica la direzione verso cui da due decenni almeno si orienta il mercato. Certo, vendere è sempre stato il primo compito di un editore, ma molto è cambiato nel sistema di produzione dei libri, come tra le righe nota nel primo capitolo l’autrice, Valentina Notarberardino, basandosi sulla sua lunga esperienza di ufficio stampa: «Quello che il lettore non sa è che la sua libertà di scelta si esercita solo fra i libri che il mercato suggerisce di comprare». E lo stesso lettore «non sempre ha presente che la vita immateriale del libro, tra recensioni, premi letterari, passaggi in tv e in radio, può essere abilmente indirizzata, se non pilotata, da una buona cabina di regia di partenza».

Così, con l’aiuto delle testimonianze di altri operatori del settore, Notarberardino racconta in modo efficace i passi che porteranno un titolo – forse – al successo. (Da segnalare, fra i casi descritti, l’avventura di Ferrovie del Messico, che grazie alla sapiente «cabina di regia» di Giulio Mozzi, grande conoscitore dell’editoria italiana, oltre che scrittore importante, è arrivato a vendere, dalla sua uscita nel 2022, più di cinquantamila copie, superando gli enormi ostacoli iniziali: un autore allora ignoto, Gian Marco Griffi, e una casa editrice piccolissima, Laurana).

In un certo senso, a specchio di Operazione bestseller si pone La cultura nei media di Giorgio Zanchini (Carocci, pp. 211, euro 17), che indaga come libri e oggetti culturali di vario tipo siano trattati sugli organi di informazione e come questa si sia trasformata dai tempi remoti in cui dominava la carta stampata all’attuale dispersione digitale.
Cercando eroicamente di evitare apocalissi e integrazione, per riprendere la dicotomia introdotta da Umberto Eco, Zanchini parte dal presupposto – inconfutabile – che l’idea stessa di cultura è profondamente cambiata, notando come oggi l’informazione sia «polimorfa, ubiqua, partecipata» e cercando di sondarne le mille declinazioni, senza nascondere i due maggiori pericoli cui stiamo andando incontro: una frammentazione che pregiudica la complessità e una «rifeudalizzazione dei saperi».

COME DIRE CHE LA CULTURA appartiene di nuovo a pochi? Ammesso sia vero, e non è escluso, da questa derivano altre domande: cosa intendiamo adesso per cultura? chi sono i pochi? e questi pochi coincidono con il potere (politico, economico, sociale, militare)? Non risponde, e anzi amplia ulteriormente gli interrogativi, il saggio di Emanuele Bevilacqua Attenzione e potere (Luiss University Press, pp. 221, euro 17) che, come indica il sottotitolo «Cultura, media e mercato nell’era della distrazione di massa», si concentra su quella capacità particolare, la presenza a sé stessi, tanto importante per la sopravvivenza, quanto oggi più che mai «condizionata dall’uso che facciamo delle informazioni che riceviamo e da come le riceviamo».

Consapevole che addentrarsi in questo territorio significa anche fare una corsa contro il tempo (basti pensare a com’è cambiato il dibattito su media e cultura dal 30 novembre del 2022, data in cui è stato lanciato ChatGPT), Bevilacqua affronta scenari diversi, dall’evoluzione dei social agli studi sull’audience, per arrivare a concludere che la sfida consiste nel «non perdere le nostre abilità essenziali e al tempo stesso non rinunciare agli effetti benefici dell’innovazione». Vasto programma, lui stesso lo sa, che richiede «una collaborazione fra generazioni diverse» e, ça va sans dire, una grande attenzione.
Se in questi «tempi eccitanti di cambiamento, di caos e di paura», i libri – come agenti di dubbi, di fatiche, di confronti, di lentezze – avranno ancora uno spazio e un ruolo, è da vedere. Nel panorama attuale la risposta non è scontata.