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Libia, aprire gli occhi con un fumetto

Libia, aprire gli occhi con un fumettoUna Tavola di Gianluca Costantini da «Libia»

Intervista Gianluca Costantini presenta il Graphic novel scritto con Francesca Mannocchi e Daniele Brolli

Pubblicato quasi 5 anni faEdizione del 9 novembre 2019

Nel giorno precedente al tacito rinnovo del memorandum Italia-Libia, incontro a Lucca Comics il vignettista Gianluca Costantini, attivista impegnato da sempre nella difesa dei diritti civili, disegnatore per Amnesty International, Left e Internazionale, nonché indiscusso protagonista del graphic journalism nostrano. A Lucca Costantini ha presentato il suo libro Libia, edito da Mondadori Ink e realizzato con la giornalista Francesca Mannocchi e lo sceneggiatore Daniele Brolli.

Mi riceve donandomi due libretti sottili, freschi di stampa, che raccolgono altrettante vicende che l’hanno visto protagonista. «La mia attività è tutta digitale ed ho voluto raccoglierla in questi libretti per raccontare cosa mi capita, altrimenti sarebbe difficile seguire il filo delle vicende che mi vedono coinvolto, o lo sviluppo dei progetti. Quello grigio tratta del processo a Volkswagen dopo la denuncia da parte dell’artista cinese Ai Wei Wei, e l’altro del mio allontanamento da CNN».

I libretti, che non sono destinati al commercio, sono comunque un “fenomeno di stampa di ritorno”, un altro caso in cui la pubblicazione digitale chiama a gran voce la carta per lasciare traccia.

Gianluca, in cosa consiste la tua collaborazione con Ai Wei Wei?
Stiamo facendo un libro a fumetti insieme, un lavoro che ripercorre la sua vita per parlare della libertà di espressione, tramite il suo personaggio. Sarà una produzione interna.
Questo invece (indica il libretto grigio, ndr) è un approfondimento sul processo contro la Volkswagen, responsabile di aver scattato una foto di fronte alla sua istallazione dei giubbotti di Lesbo, istallati a Copenhagen e di averla utilizzata per le sue campagne pubblicitarie senza chiedere il permesso. Ai Wei Wei li ha denunciati ed ha vinto. È stato un processo all’americana, al quale si poteva assistere. Ho seguito il processo in aula ed ho disegnato.

L’altro libretto riguarda la vicenda della CNN, che ha rescisso il tuo accordo di collaborazione. Che cosa è successo?
La storia è questa: c’è un profilo falso, abbastanza stereotipato, di una ragazza siriana bellissima che si spaccia per partigiana siriana, ma in realtà è a favore del governo di Assad e quindi nemica degli Stati Uniti. Ha pubblicato una mia vignetta del 2016, dove si vede un guerrigliero dell’Isis che si toglie la maschera di Netanyahu, facendo intendere di gradire il mio disegno. Ma ovviamente era tutto falso e c’era già qualcuno pronto a rilanciare il post, Arthur Schwartz: lui che fa parte dell’ufficio di Steve Bannon, usa tutte le informazioni sui giornalisti della CNN per screditare l’emittente, contraria a Trump. È stato lui a ritwittare questa vignetta vecchia di tre anni – casualmente aveva una screenshot dell’originale – decontestualizzata, accusando CNN di lavorare con artisti antisemiti. Senza nemmeno provare a difendersi o a difendermi, la CNN mi ha contattato dicendomi che erano coscienti che non fossi antisemita, ma che non vogliono che niente e nessuno possa screditarli. Una delle emittenti più grandi al mondo non ha un sistema di difesa per i loro giornalisti. Ovviamente non sono l’unico a cui è successa una cosa simile.

Questo tipo di manipolazione del linguaggio, quando non omissione dei fatti, si ritrova anche in Libia, il libro che hai presentato a Lucca. La narrazione si apre con Hussein, un testimone del massacro nella prigione di Abu Salim del 1996: 1270 detenuti, principalmente prigionieri politici internati senza processo, giustiziati in due giorni. È un personaggio che avete utilizzato per dare una prospettiva storica alla narrazione?
Hussein è un personaggio reale, anche se fisicamente non è lui. Francesca lo ha incontrato, ma non poteva fare foto. Questo personaggio ha le fattezze di un altro sopravvissuto che ho visto in un documentario.
Quella di Abu Salim inoltre è una storia spesso screditata poiché di queste vittime non si è trovato, né più saputo niente. L’unica denuncia è arrivata da Amnesty, ma c’è chi è convinto che si tratti di una fake news e dice che quelle 1200 persone non sono mai esistite, sebbene ci siano testimoni che da un padiglione all’altro del carcere hanno sentito tutto, come Hussein. È un caso importante, perché lì tra i morti c’erano politici e attivisti figure di rilievo della Libia.

C’è una scena straziante in apertura al libro, dei parenti dei detenuti di Abu Salim che continuano ad andare in visita e a portare regali ai detenuti, mentre questi sono già morti da tempo. Mi è sembrato un silenzio violento.
È un classico delle dittature: si instaura un silenzio che lascia in sospeso la vita degli altri. Avviene anche in Eritrea, dove moltissimi giornalisti, scrittori e poeti sono stati arrestati nel 2001 e tutt’oggi i parenti non conoscono le loro sorti, non li hanno mai più visti.
È una violenza psicologica a rilascio lento uno dei motivi che ci ha fatto scegliere di aprire il libro con questa storia di molti anni, dell’epoca di Gheddafi.

Hussein dice “Rivoluzione e libertà, per quello che queste parole possano significare”. Un po’ come il concetto di scafista, parola che aldilà del mare cambia di senso?
Lo smantellamento del concetto di scafista colpisce molto i lettori. Anche chi è consapevole, è indottrinato: lo scafista ci viene raccontato come un personaggio malefico, che si infiltra anche nella nostra società. Ma gli scafisti in realtà non esistono, sono solo altri migranti, che non pagano il viaggio solo perché capaci di portare una barca o un gommone. Perché salire a bordo con i migranti, e rischiare di perdere la vita, con quelle pochissime possibilità di arrivare a destinazione, se non per soldi? Anche gli altri cattivi che incontriamo, i responsabili della tratta degli uomini e delle donne, i miliziani, sono tutte persone poverissime che per avere qualcosa in più fanno cose disumane, ma non sono meno dannati delle loro vittime, infatti come si capisce dalle interviste, non si sentono in colpa.

E non hanno pudore a parlare con i giornalisti occidentali. Francesca Mannocchi è infatti raffigurata mentre li intervista. Mi ha colpito che ci sia una parte in cui la giornalista non vuole tapparsi il naso nei centri libici, nonostante le condizioni igieniche insostenibili e ho notato non lo fa neanche nei reportage che vediamo in tv, a Propaganda Live. Ho visto in questo gesto un parallelismo con la necessità di smettere di tapparsi gli occhi di fronte al dramma.
Certo, quando ti trovi di fronte alle persone nei campi puoi avere questo tipo di reazione e tenere ben chiaro l’aspetto umano della situazione.

Che succederà al memorandum dell’accordo Italia-Libia, firmato dal governo Gentiloni nel 2017?
Noi con il racconto ci fermiamo molto prima, e sicuramente, la situazione non è più chiara di quanto non lo fosse nel 2017. L’accordo riguarda il periodo Minniti, ma con il governo Salvini non è cambiato molto: lui ha adottato misure fasciste che riguardano la gestione dei migranti in arrivo, che cancellano il soccorso e l’accoglienza. Minniti invece cercava di fermare tutti là, di non farli partire. Al Bija, ex capo della supposta guardia costiera libica, intervistato da Francesca nel reportage andato in onda pochi giorni fa, si lamentava per la vicinanza delle ONG alle coste libiche, mentre Il memorandum per me vuole spostare le ONG ancora più a largo in modo che la Libia abbia più spazio per riportare indietro i migranti.

Come nasce e cresce questo libro a sei mani? 
Francesca aveva interviste a tutte queste personalità incontrate, molto diverse tra loro.
Io le stavo illustrando ma c’era qualcosa che non funzionava, poiché volevamo offrire un ritratto della Libia il più comprensibile possibile, e vista la difficoltà oggettiva e la situazione politica estremamente complessa, quell’assetto rischiava di rimanere troppo frammentario. Abbiamo avuto bisogno di una figura intermedia che creasse una sceneggiatura e l’abbiamo trovata in Daniele Brolli. Da parte mia ho cercato di ricreare il contesto della città di Tripoli, molto affollato ma sul quale praticamente non esiste documentazione, solo foto di agenzie.

Su cosa hai lavorato quindi?
Un po’ con video amatoriali, qualche foto di Alessio Romenzi, che però è un fotografo di conflitto. Avevo bisogno di immagini dalla vita quotidiana per rispondere alle necessità di sceneggiatura fornita da Daniele: come mangiano i libici? vanno al bar? Ho dovuto creare dei set, ricostruire le mappe. Nemmeno la Google car entra in Tripoli. Ho ricostruito anche la struttura del carcere, diviso in sezioni, sei blocchi separati da cortili, che dall’alto, non erano visibili. Abbiamo deciso di rispondere alle necessità del vero, per disegnare verosimilmente i campi, le mense.

È questa la differenza più grande tra questo tipo di narrazione e le vignette? 
Certamente è il lavoro di documentazione, per il quale ho mischiato migliaia di foto, dai fotografi della Magnum, ai pochi che mettono foto su Instagram. È stato un lavoro di convergenza volto a fornire una visione realistica, fondamentale per il fumetto di realtà.

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