Liberatori, ironici, di inafferrabile oscura sessualità
Florence Queer Festival "Rosso e verde", il documentario sulla percezione della sieropositività, "Il rosa nudo" omossessuali deportati nel lager, "Heterosexual Jill" gli stereotipi sul lesbismo e l'ex lesbismo
Florence Queer Festival "Rosso e verde", il documentario sulla percezione della sieropositività, "Il rosa nudo" omossessuali deportati nel lager, "Heterosexual Jill" gli stereotipi sul lesbismo e l'ex lesbismo
Camminano sul ciglio di una diga, a ridosso del vuoto, sul confine: avanzano; intorno a loro montagne e cielo, montagne e cemento: vanno; attraversano un ponte che si allunga verso l’infinito. Come un uccello dalle ali spiegate, la camera li sorvola e li accompagna. Sono in tre, due donne e un uomo, il luogo è la Svizzera, gli scenari quelli rarefatti delle Alpi.
Sono giunti qui, in un albergo avvolto dal verde e dal silenzio, a scambiarsi vissuti e presenza. Pierre ha quasi 65 anni, è stato ingegnere e ama il trekking in solitario; Jennifer ne ha 20, fa l’assicuratrice e sogna di fare il giro del mondo; Helen, 50, vive col sussidio dello stato, sposata da 30 anni, ha due figli. Pierre, Jennifer e Helen sono sieropositivi.
A trascendere i limiti della percezione sociale della malattia, ad aprire profondi territori di riflessione emotiva filosofica e spirituale, lavora non solo Rot und Grün (Red and green – HIV The special case), l’illuminante documentario di Pascal Wasinger e Ervan Rached, ma anche il Florence Queer Festival che lo accoglierà in anteprima italiana – dal 6 al 12 novembre al cinema Odeon l’edizione 2013 -.
Come è mutata l’immagine collettiva della malattia dal suo primo apparire e man mano che nuovi farmaci materializzavano prospettive di vita sempre più incoraggianti? Riusciamo a mantenere costante il focus di attenzione sull’argomento? E ancora: come tutto questo tocca la pelle e il cuore di chi conosce la sieropositività in prima persona? Le esperienze dei tre irradiano un fiore di meditazioni interrelate: dal coming out allo stigma, dallo specifico annodamento tra malattia e sessualità al senso di colpa, al rapporto con il tempo, l’azione e l’imponderabilità della vita, a sacche d’ombra come la perdita di sé e l’identità, alla libertà, come dice Pierre, di poter pensare e dire la propria morte.
Rigoroso negli interventi di approfondimento (psichiatri, psicoterapeuti, accademici, attivisti …), Rot undGrün, dedicato nel finale a Pierre, fiorisce soprattutto grazie alla generosità dei tre, ai momenti senza parole, quando a dirsi sono i corpi e gli spazi tersi, mentre la macchina che li riprende è la quarta del gruppo, e le stelle il coro muto che abbraccia e risplende. È allora che, senza dimenticare il rosso del travaglio, al nastrino della lotta all’aids, si unisce il verde del respiro e della speranza.
Al rimosso anche dalle democrazie europee del dopoguerra si volge con coraggiosa fermezza Il rosa nudo di Giovanni Coda (sabato 9), trasfondendo in un’opera di ricerca cinematografico teatrale la testimonianza dello scrittore francese Pierre Steel: il suo vissuto e quello degli omosessuali deportati come lui nel lager di Schirmeck, al confine con la Germania. Una denuncia esplosa nel 1982 in reazione alle dichiarazioni omofobe del vescovo di Strasburgo, dopo quasi 40 anni di inenarrabile forzato silenzio.
Voce off, la delicatezza di una rosa che emerge da un’oscurità profonda e obnubilante – Pierre ha solo 17 anni quando viene arrestato nel 40 – intarsi a colori retrò su una trama ingabbiata in un incombente bianco e nero, il film, che muove dalla sua autobiografia scritta con il giornalista attivista per i diritti LGBT Jean Le Bitoux, si addentra tra le maglie aberranti dell’ideologia nazista, nel suo considerare gli omosessuali – paragrafo 175 del codice penale – in quanto incapaci di riprodursi, come malati da arrestare, internare, marchiare con il triangolo rosa, sottoporre a inimmaginabili sevizie psicofisiche, nonché orrorifiche sperimentazioni pseudomediche.
“Espressione vivente di come il dolore sia stato conficcato nello spirito e nelle carni di un essere umano”, Pierre Steel sarà spettatore di torture, torturato egli stesso, vedrà il suo compagno morire trucidato, sarà mandato a combattere sul fronte russo e quando sarà liberato, combatterà tutte le notti e i giorni l’orrore del ricordo; il padre gli imporrà il silenzio, la madre accoglierà il suo racconto e poi gli morrà tra le braccia; infine, quando la voce proromperà dal suo corpo cancellato dalla paura, lotterà per decenni con lo Stato francese per veder riconosciuta la sua condizione di deportato omosessuale vittima dell’Olocausto. Suona La vie en rose: oltre la finestra insanguinata gli uomini si abbracciano, si imboccano, si cullano. Cristi dalle corone di filo spinato.
Ancora: tono completamente altro, ma sempre molto FQ fest, perturbante variegato e liberatorio, per Heterosexual Jill, opera seconda dell’autrice statunitense Michelle Elhen, nonché sequel di Butch Jamie (sorta di Tootsie in versione lesbica). Qui, a dispetto dei titoli, si giocherà a demolire definizioni e stereotipi, a sforare, contaminare, allargare: e se la giovane Jill rintracciasse dopo quattro anni la sua ex, Jamie, e le proponesse di vedersi per dimostrare a se stessa di “essere diventata”etero? A questo assunto si aggiunga un piccolo scenario di metacinema folle – “il miglior mockumentary sui gatti attori che sia mai stato realizzato”, il set dove Jamie lavora – altrettanto deliranti gruppi di autoascolto per “ex lesbiche” e per lesbiche in cerca di accettazione di sé e il risultato sarà una commedia dalle nuance surreali e colorate, una materia che vede Elhen creatrice assoluta. Scrive, dirige, monta e produce, ma soprattutto incarna la tenera ridondante umanità di Jamie con una levità deliziosamente autoironica. Che cosa nebulosa e inafferrabile è la sessualità: l’autenticità va generata ogni giorno …
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