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Libera dalle mafie

Storie Omissioni, aggiunte, sostituzioni. Al processo contro l’ex sindaca antimafia di Capo Rizzuto Carolina Girasole si smontano le intercettazioni sui favori ai clan

Pubblicato più di 9 anni faEdizione del 5 marzo 2015
Silvio MessinettiISOLA CAPO RIZZUTO

Nessuno riuscirà mai a spiegare a Josef K. il motivo del processo che un’autorità giudiziaria incalzante gli ha intentato. Neanche prima del tragico epilogo, quando il protagonista del romanzo di Franz Kafka verrà giustiziato. Nella narrazione gli spiragli che sembrano illuminare la realtà sono subito oscurati da una penombra che non si dilegua, da una macchina della giustizia fosca ed impenetrabile che annichilisce il protagonista in una condizione di grottesca semilibertà vigilata. Invece, Carolina Girasole, già sindaco di Isola di Capo Rizzuto e per anni considerata testimonial dell’antimafia, referente di Libera, i capi d’imputazione per cui è a processo da più di un anno a Crotone, e prima ancora agli arresti, li conosce eccome. Ma tanto l’attività investigativa quanto il dibattimento stanno dimostrando come a volte la giustizia può farsi ingiustizia e mostrare il suo volto peggiore. Quello dell’errore giudiziario e, chissà, persino della trappola.

Il 4 dicembre 2013 Girasole e suo marito Franco Pugliese vengono tratti in arresto. La custodia cautelare si protrarrà per 8 lunghi mesi. La tesi accusatoria è descritta dall’informativa della guardia di finanza e poi ripresa dall’ordinanza di custodia cautelare. In sintesi: «Il sindaco Girasole attraverso suo marito avrebbe chiesto alla cosca Arena i voti in cambio di favori. I voti li avrebbe ottenuti nella misura di almeno 1350. Il sindaco avrebbe favorito i mafiosi perché invece di distruggere i finocchi nelle terre confiscate li ha messi all’asta». Questa tesi infamante sarebbe «provata» da due «fondamentali» intercettazioni di conversazioni tra mafiosi, in cui questi, parlando tra loro e delle loro cose, metterebbero in campo notizie «indubitabili» atte a provare la tesi dell’accordo tra Girasole e la cosca Arena. In una prima si parlerebbe di mille voti. In una seconda di 350 voti. Nonché la sottolineatura, ripetuta più volte, che tutta la famiglia Arena si sarebbe attivata a favore dell’ex sindaco perché, come dice uno dei mafiosi, «Pasquale Arena, facendo favori ai cristiani (alla gente, ndr) raccoglieva i voti». Infine, la convinzione espressa dal capomafia Nicola Arena che «se il sindaco poteva fare qualcosa l’avrebbe fatta (a proposito dei terreni confiscati, ndr)». In realtà, tutte le intercettazioni risultano «sostanzialmente manipolate» nella loro trascrizione: omissioni, aggiunte inesistenti, trasformazioni del maschile in femminile, sostituzioni di termini. Ciò lascia intravedere un «disegno ideologico» – secondo la difesa – atto ad incastrare Girasole e farla cadere ai tempi in cui le intercettazioni vennero captate. Ovvero sul finire del 2010, quando era chiaro il suo orientamento di affidare a Libera le terre confiscate piuttosto che ad associazioni locali probabilmente collegate agli Arena. Le intercettazioni ritenute «fondamentali» dall’accusa sono del tutto inattendibili. Dall’ascolto della prima risulta falso che la parola «1000 voti» sia stata pronunciata (il mafioso dice «‘na vota», volendo affermare che avrebbe parlato «non solo una volta» con il marito di Girasole: al posto di «’na vota» l’informativa della gdf scrive «1000 voti»).

Anche l’altra intercettazione è fallace. I 350 voti di cui si parla sono chiaramente riferiti alle elezioni provinciali di Crotone e sarebbero stati raccolti non per Girasole, che non partecipò a quella competizione elettorale, ma per un signore (di cui peraltro si sente il nome e cognome), vituperato come «merdoso» e «ricchiuneddu» e perciò detto anche «fimmina». Anche questa conversazione risulta manipolata: il discorso è tutto chiaramente al maschile (lui… iddhu etc), a un certo punto viene introdotto il termine «sindaco» e facendo riferimento all’espressione «fimmina» si declina tutto al femminile. Insomma, un pasticcio investigativo in cui si scambiano le identificazioni dei soggetti (Pasquale Arena di cui si legge nell’ordinanza non è il figlio del boss ma solo un omonimo), ci sono aggiunte malevole, omissioni parziali. Un blob di 15 intercettazioni in cui mai si ascolta la voce del sindaco Girasole o del marito ma solo conversazioni tra mafiosi. E in cui mai risulta che gli Arena abbiano dato un solo voto a Girasole.

Per la difesa è stata costruita ai suoi danni «una vera e propria trappola per ostruirle la carriera politica e rovinarle la vita». Esiste, peraltro, una documentazione cospicua fornita dalla difesa al tribunale che attesta «l’attività di contrasto» di Girasole alla ‘ndrangheta e agli Arena. A partire dal fatto incontrovertibile che i 100 ettari sono stati sottratti alla disponibilità del clan solo grazie alla caparbietà del sindaco. Che, se avesse voluto, avrebbe potuto consegnare i terreni ad associazioni locali, cosa gradita al boss Nicola Arena come pur si sente nelle intercettazioni. Il sindaco, invece, in accordo con la prefettura, li ha consegnati a Libera di don Ciotti.

Il dibattimento in corso sta smontando il castello accusatorio pezzo per pezzo. Una cosa è certa: l’odissea giudiziaria ha distrutto la carriera politica di Girasole. Non è più sindaco e non ha più ambizioni nazionali. Ora Isola di Capo Rizzuto è in mano alla destra. Il nuovo sindaco è di Forza Italia e si chiama Gianluca Bruno, giovane e aggressivo con la foto di Dell’Utri nell’album di facebook. Molta voce in capitolo hanno le Misericordie di don Edoardo Scordio, un parroco potente e discusso che mal ha digerito l’arrivo in paese di don Ciotti e di Libera, sponsor Girasole. Bruno per anni è stato nel consiglio direttivo delle Misericordie. Un pozzo di danaro, la confraternita. La posta di bilancio più alta è l’appalto del Cie/Cara Sant’Anna, un fiume milionario. L’anno scorso l’ex ministra Kienge vide coi suoi occhi le condizioni fatiscenti del campo. Il Cie è stato chiuso dopo le rivolte dei migranti. Rimane il centro d’accoglienza più grande d’Europa che, a dispetto del nome, è tutt’altro che accogliente. Qualche giorno fa una delegazione della campagna LasciateCIEntrare lo ha visitato.

«Appena entrati ci siamo diretti verso il Campo A che da più di 10 anni si trova lì e si compone di tanti container di ferro al cui interno dimora una dozzina di asiatici e maliani in condizioni igieniche insane – raccontano Ciccio Gaudio e Yasmine Accardo – l’assistenza sanitaria è penosa perché è difficile incontrare i medici. Il cibo è insufficiente, senza né gusto né sapore, oltre che non avere nessuna indicazione se sia o meno halal, nel caso si tratti di carne. Ogni migrante è costretto ad accettare le condizioni del campo per paura o per ricatto, visto che gli si dice “o così o niente permesso di soggiorno”. La storia più triste è quella di una donna marocchina che ha partorito nel campo dopo una lunga sofferenza e che ora ha una figlia malata di 4 mesi, nata dopo un intervento dentro al Cara, senza aver mai visto l’ospedale. Siamo poi giunti al posto di prima identificazione dove abbiamo trovato più di 50 persone tra uomini, donne e bambini tutti siriani, appena arrivati da Lampedusa. Stavano tutti dentro un capannone, un posto davvero indegno per una prima accoglienza. Ci siamo avvicinati a un giovane, che aveva la stanchezza tracciata pesantemente sul viso. Stavamo scambiando due chiacchiere quando è arrivato un funzionario che ha cominciato a gridare. Diceva che noi non potevamo stare lì e chiamato la polizia, l’esercito, i carabinieri per impedirci di restare sebbene autorizzati. Quindi siamo stati accompagnati fuori e dopo un po’ siamo stati richiamati da un siriano. Volevano costringerlo a prendere le impronte con la forza. Così siamo entrati di nuovo, però la polizia ci ha impedito di parlare con loro, che erano già in sciopero della fame. Abbiamo spiegato che non potevano prendere le impronte contro la volontà dei migranti, che già erano arrivate segnalazioni di percosse ai siriani. Abbiamo chiamato un avvocato ma non è stato fatto entrare. Poi è arrivata un’altra attivista. È entrata anche lei, ma non le è stato permesso di vedere i siriani. Si tratta nient’altro che un campo di vergogna».

Nonostante da oltre dieci anni il Sant’Anna sia nell’occhio del ciclone, non viene mai chiuso e l’appalto è sempre rinnovato. Le Misericordie continuano a sguazzare nel business dell’accoglienza e hanno un sindaco nella loro orbita. Nel mentre, la loro avversaria, Carolina Girasole, vive un dramma giudiziario da oltre un anno. Intrappolata in una macchina giudiziaria sorda e kafkiana.

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